A bunch of my english poems, Forest and others, published in the Punch Magazine. Many tanks to the curator Sudeep Sen for the attention to my poetry ♡
The Punch Magazine is an international monthly digital magazine dedicated to the the best in literature, arts and culture. Founded by Shireen Quadri. New Delhi, India.
Alcune mie poesie, Forest e altre, pubblicate in The Punch Magazine. Ringrazio il poeta e curatore Sudeep Sen per l’attenzione dedicata alla mia poesia.
The Punch Magazine è una rivista digitale mensile internazionale dedicata alla migliore scelta di letteratura, arte e cultura. Fondata da Shireen Quadri. Nuova Delhi, India.
Dopo mesi di reclusione forzata e innumerevoli libri non stampati, non presentati, reading annullati, incontri con i poeti inesistenti o relegati in una cornice filtrata da un asettico schermo, anche il corpo del poeta è finito nella rete! Qualcuno storcerà il naso all’idea di sentirsi intrappolato in un cavo, di non avere più presenza fisica nel mondo sociale? Qualcuno si domanderà se è importante questa mancanza? Qualcuno avvertirà l’assenza del corpo del poeta? Io credo di sì. I poeti già lo avvertono, i poeti già sentono la propria mancanza, la mancanza di un pubblico, la mancanza dell’altro, dello scambio, di quel tu che è voce di rimando e a cui ogni poesia si rivolge, anche quella taciuta, relegata nei cassetti, anche quella non ancora detta ma che cerca di diventare suono, vocabolo, pagina, materia letta. La poesia continuerà ad avere una voce. Ma una voce senza corpo non è più qualcosa di vivo. È già memoria. Non è più vortice, respiro, cambiamento, fuoco vivo e dialogo. Una volta mi fu chiesto se poteva esistere il poeta senza un pubblico. Dovetti ammettere che no, il poeta senza pubblico non esiste. Esiste la poesia, certamente, ma non il poeta. Esiste in un libro, in una recitazione, una replica di ciò che il poeta ha detto. Ma ha detto a chi? Quando e dove? Solo in un libro? In una pagina chiusa? In un foglio scritto e poi riposto? E a cosa serve il poeta?
Fukui Ryonosuke “Alone tree”
Il poeta è l’orecchio del mondo perché ascolta le voci altrui, i disegni immateriali della mente, i fantasmi taciuti del presente, personaggi reali o immaginati, nascosti dietro una realtà intangibile. Scova nel silenzio l’invisibile, lo nomina, gli dà un’altra vita e lo porge al mondo che si arricchisce di altre voci. Ma il poeta è anche un corpo sonoro, un mezzo attraverso cui la voce della poesia assume una sembianza umana, definita, materiale, corporale. Il corpo del poeta è presenza, bagaglio di suoni ancestrali, essenza imperscrutabile, simbolo e percorso. Corpo come istanza dell’essere nel tempo.
Possiamo privarci del corpo del poeta? Certamente è accaduto più volte. Certamente continua ad accadere e questo provoca delle reazioni, non si è mai indifferenti a un corpo e una voce reclusi. Più forte emergono, più violenta diventa la reazione del pubblico che chiede una voce libera attraverso cui poter esprimere anche i propri sentimenti, le proprie emozioni, impossibili da dire e perciò lasciate al poeta come un cibo immangiabile da trasformare in una pietanza digeribile. Non si vorrebbe rinunciare a questa mensa, eppure accade. Se ci siamo privati di molte cose durante questa pandemia, ci siamo privati anche del corpo del poeta, della sua presenza, del suo carico di suoni ancestrali, voci nascoste, simboli e percorsi. Ci siamo privati dell’immagine in presenza, non solo evocata dalla poesia, ma dalla voce, dalla mimica, dai gesti, dalla corporalità, dall’essere in tutti i sensi presenza viva. Stava già accadendo prima. Da tempo ormai il corpo sonoro del poeta stava assumendo i contorni della leggenda. Non perché egli volesse chiudersi in torri d’avorio, non perché spaventato dall’assenza ma perché il diritto alla parola, a un uditorio in ascolto e in presenza, sembrava esser dato solo a pochi. Eppure tentava di riprendere il proprio spazio, a questo serve il corpo: occupare uno spazio nel mondo è dire di essere presenti. E come possiamo occupare questo spazio se ci viene negato il contatto e lo scambio e la presenza in luoghi a noi anche distanti? Non vorrei che i poeti diventassero fantasmi senza dimensione, schiacciati nei pixel di uno schermo ad alta definizione, senza l’emozione di un incontro vivo che ci faccia sentire il calore di una voce che proviene da un punto marginale e diverso, perciò importante, perciò richiedente ascolto dopo essersi fatto “tutto udito”. Riprendiamoci il corpo del poeta, lasciamogli uno spazio pubblico e gratuito, eleviamolo nell’ascolto. Magari nei parchi, lasciamo delle pedane aperte, un giorno dedicato a una voce anonima, magari lo ascolteranno i bambini che giocano, oppure no, ma diamogli una possibilità, che il corpo sonoro non muoia in questa forzata autoreclusione, che il poeta occupi uno spazio, che si faccia carne viva.
Valentina Meloni
23 novembre 2020
da un intervento che andrebbe letto di fronte a un uditorio e che ora si trova intrappolato nella rete
illustrazione di Kathleen Piercefield, Emily Dickinson in brown tones, 2015
Buon compleanno Emilie…
Oggi sono 190 anni dalla nascita di Emily Dickinson. Per celebrare il suo compleanno ho scelto e tradotto una poesia in cui emerge lo spirito giocoso e gioioso della poetessa di Amherst che gioca con i fiocchi di neve fingendo di contarli con le sue “dieci piccole dita” che sembrano proprio ricordare la data di oggi 10 dicembre.
Fiocchi di neve. Li contai finché danzarono e poi le loro babbucce balzarono oltre la città – quindi presi una matita per annotare i ribelli scesi giù – così allegramente allora crebbero che smisi d’esser presuntuosa – ed ecco dieci delle mie dita prima così solenni mettersi in fila per una giga!
Snow flakes. I counted till they danced so Their slippers leaped the town – And then I took a pencil To note the rebels down – And then they grew so jolly I did resign the prig – And ten of my once stately toes Are marshalled for a jig!
Una sottile malinconia popola i versi di Michela Zanarella in La filosofia del sole (Edizioni Ensemble, 2020). Una malinconia che sembra procedere da una sorgente lontana che dà e toglie speranza, un sole che trascende il dolore e lo plasma in notte a cui però segue sempre un’alba luminosa. Luce è la parola più ricorrente nei versi di Michela quasi che si ricerchi un chiarore numinoso che possa portare sollievo alle nostre impossibilità.
Questi sono versi che si avvicinano a una poesia confessionale ma che si aprono a un interlocutore immaginario che prende corpo nel lettore e nell’altro da sè. Densi di rimandi classici e di echi ma con una propria autonomia di linguaggio, con un proprio percorso che tiene in piedi un discorso d’amore per le cose del mondo.
“Ella dosa con misura e con amore e così scrive un libro di liriche che focalizzano momenti magici e soprattutto gli attimi della vita che scorre aperta sul senso nuovo del vivere e dell’amare. Il linguaggio è limpido e mai chiassoso, lineare e semplice, di quella semplicità che è raro raggiungere se non si ha dentro il fuoco delle “controversie”, per dirla con Mario Luzi.“ Dante Maffia
L’amore è la misura con cui la poeta traccia una strada invisibile ma sicura, in questi versi chiave lo ribadisce, il sole è l’amore fatto raggio che si palesa nella propria vita in un amore impossibile, forse reale, forse immaginato, e nelle vite altrui, nei passanti, nel chiarore del giorno, nel distendersi degli alberi al cielo, nel vagone della metro, in due ragazzi che si baciano…
Il sole è l’amore fatto raggio che accorcia le distanze e illumina le cose. Innamorarsi significa radunare l’alba negli occhi.
In questo libro Michela si conferma poetessa sensibile, dal linguaggio poetico affinato e personale che prende corpo dall’immanente per cercare una trascendenza lirica, un mondo altro, un ideale platonico e metafisico che non ci è dato vedere ma di cui la poeta sente l’esistenza e la vive nelle cose del mondo.
nanita
Nominare tutte le cose anche le più dolorose luce e chiamare nettare la vita a ogni respiro. Se fossimo capaci di capire che il bene non è la parte minima dell’amore ma è una forza antica che proviene dalle arterie del cielo ci riempiremo gli occhi di sole come regola di sopravvivenza e non ci spaventeremo della notte o della polvere che insegna alla terra l’estensione delle nuvole.
Chiedersi cosa contiene la luce e se è sufficiente vederla con gli occhi o è necessario conoscerla con tutto il corpo fino a diventarne il guscio o il respiro ogni volta che il cielo ritrova se stesso nel giorno. Nutrire lo sguardo di una moltitudine di albe distanze, segrete alleanze e avere la possibilità di portare l’anima oltre il tempo in quell’abbondanza di silenzio dove il cuore è attratto da echi di sole e l’amore si avvicina a un’ipotesi di stelle.
Non si può impedire a un cuore di amare così come non si può disobbedire alla vita. Aspettate che la luce purifichi il tempo e che la terra veda meglio l’orizzonte dalle sue ampiezze. Fermatevi a parlare con le stelle fate ascoltare agli occhi di cosa odora la notte: nella pelle è il segno del destino la scintilla che ci mette a nudo con il mondo. La verità è in uno sguardo ecco perché la luna è tutto il sole che non abbiamo saputo riconoscere al mattino.
Non è mai anonima la vita porta il nome di uomini e fantasmi e mura così come di tutte le cose che si presentano in fila lunghe d’attese ai cancelli del tempo. Appena l’amore ci attraversa il corpo il sangue inizia a imparare cosa significa prestare ascolto al cielo. Se non vi siete mai resi conto che l’alba è l’inizio di un giorno perfetto guardate come nasce il sole e come lo accoglie la terra: non siamo soltanto aria stesa che non sa restare, oltre i nostri fiati diluvia luce.
Il cielo era luce prima di noi ha conosciuto le nostre vite precedenti sa che siamo stati il tiglio e la quercia sa che non esiste tempo che ci allontani fu così anche nel mito di Filemone e Bauci a radici nude nel sole eterno l’anima sciolta nel vento pronti a gocciolare amore come polline e a rinascere tutte le volte che un fiore s’avvera sulla terra.
Un giorno potrò dire ho amato come se il cielo non avesse confine nell’unico modo che mi ha insegnato la vita senza riserve senza risparmiare il fiato portando l’anima fuori dal tempo con la stessa verità degli alberi e non avrò altro che quella verità da stringere tra le mani resina che segna la corteccia.
Niente è più importante della vita abbiamo il mondo per capire che la luce porta il respiro del tempo. Il sole è l’amore fatto raggio che accorcia le distanze e illumina le cose. Innamorarsi significa radunare l’alba negli occhi.
Rovi di more chiedono ascolto mentre il sole scalda il volto delle pietre e io mi fingo satura di bosco quando invece non so più che colore fa l’autunno alle cortecce. Chissà cosa dice il fungo che germoglia senza voce e dove si ferma il ciclamino orfano di luce. Cosa resta della neve che ho vissuto e del fiato che spingevo a eco nella valle che io sappia solo il cielo ha memoria dei miei silenzi stretti al vento nella sera quando tutto era sogno quanto tutto era un mondo che sa poco o quasi niente della notte.
I ragazzi nella metro si baciano a occhi chiusi di spalle al tempo hanno labbra cariche di sole si sfiorano l’anima in silenzio e non si accorgono del mondo intorno vivono persi nei loro sguardi con il cuore che viaggia più del vento. I ragazzi nella metro hanno tutto il cielo in tasca senza saperlo vogliono soltanto più luce per guardarsi ancora l’iride prima che la stazione si riprenda ogni istante nel vortice della città.
esisterà un sogno sognato in cui ci siamo spogliati delle pesanti corazze di poeti e ci siamo detti il lutto dell’esistenza un attimo in cui i nostri fiati si sono mischiati ai sospiri del vento le mani intrecciate per non perdersi gli occhi inchiodati agli occhi per ritrovarci esisterà un sogno sognato in cui ci siamo scambiati la malinconia tu la mia ed io la tua in cui ci siamo nutriti solo di sguardi — affamati come lupi di branco — in cui abbiamo fatto dei boschi rifugi in attesa di concerti silenziosi di carezze di neve nelle mani assetate ho fatto mio il pensiero d’una piccola casa di un fuoco sempre acceso di una tana tra gli abeti lontana dalle nostre vite lì solo il crepitio del silenzio e le nostre anime nude al chiarore della fiamma la danza delle ombre sui corpi e il mondo che si ferma dietro ai vetri sulla nuca i tuoi respiri i battiti veloci che gonfiano le vene solo noi dentro una notte accesa e senza tempo
non crederesti mai che le poesie camminano tra la gente escono dalle case, dalle librerie impolverate si nascondono nelle tasche dei passanti dentro le mani foderate di guanti salgono sull’autobus, sul tram, in equilibrio alla prima curva potrebbero scivolare via dal finestrino fin su la lingua di quel bambino e poi più su… su su su sulle ali degli aeroplani fanno capolino dai finestrini anche dentro i treni sepolte nei cassetti bruciate nel caminetto, non smettono di camminare sui fili del telefono nelle lettere di carta, nelle lettere pensate quelle mai spedite, quelle dedicate quelle dimenticate e poi le poesie che non si lasciano scrivere che se ne vanno via su un altro pianeta che rinascono come un filo di seta trasparente catturando le gocce d’acqua la pioggia sfuggente ricamando nel sole la parola mancante alle labbra dell’aurora. non crederesti mai che le poesie
Edito da Terra d’ulivi edizioni nel 2018,Il suono del grano di Mariangela Ruggiu è una raccolta di oltre centoventi poesie che portano la voce inconfondibile di un’autrice sarda il cui valore si è andato consolidando nel tempo, anche durante anni di lunga pausa a cui sono seguite più mature e consapevoli pubblicazioni.
Il suono del grano, bellissimo ed evocativo titolo, è una metafora che indica l’indicibile, l’impalpabilità della poesia e l’invisibile bellezza che si può cogliere solo con il cuore. In una parola, l’essenza poetica. Ma è anche un filo conduttore, una lunghissima traccia che percorre tutta la raccolta fino alla fine, fino alla chiusa, quasi che l’autrice abbia voluto lanciare un messaggio che ci è dato scoprire grazie alla nostra sensibilità di lettori.
Il suono del grano è la voce della poesia, voce che emerge solo dopo aver fatto spazio, solo dopo aver messo da parte l’io per rendere il dono:
“tolgo l’io che si fa padrone del significato/ come se fosse mia la poesia/ e non un dono che diviene…”
“niente resta di me, solo un corpo posato/ come il vestito sulla sedia”
“vorrei la neve, e tutto sparire/tornare al mio sonno…/ dimenticare il corpo/ entrare nel niente”
Ma è anche ciò che viene prima di ogni cosa, perfino prima della parola:
“c’è bellezza che è prima della parola/come germe nel grano, profumo nel pane”
ed è volo, germogliar di ali, vortice ellittico di elevazione, rinascita e trasformazione:
“poi un giorno di marzo/ sentii un germogliare di ali/il cielo aprì l’abisso”
” essere totale assenza non mi dispiacerebbe/ e lasciare tutto lo spazio a fioriture di rose antiche”
ed è anche una dichiarazione di poetica, umiltà di chi sa che la poesia è un vento che va e viene, e il poeta uno strumento:
“non voglio scrivere una poesia/ voglio vedere/ voglio sapere/ senza la rima/ senza il metro/ senza armonia…”
“apetto che diventi una poesia/ questo senso gravido del silenzio/ non mi aspetto che sia una cosa buona/ neanche che illumini, che salvi qualcuno/ che curi una ferita e , ancora meno, che faccia / di me un poeta”
alla fine una dichiarazione di sconfitta, di questo senso di incompiuto di insoddisfazione che spesso pervade il poeta, perchè non ci sono parole per ogni cosa…
“non ci sono parole/ che abbiano il suono del grano//ci sono poesie/ che non si possono scrivere”
Ma Il suono del grano è il calore della lingua materna, il fine ordito della lingua della poeta in questa bellissima raccolta che si è fatta tela in ricami nascosti perchè “si arrivi all’amore tramite l’amore”:
“io vorrei, la mia mano sulla tua/ lasciarti il calore del fuoco/un cibo dolce, la voce della Madre”
“ma tu mi chiami con questa voce che diventa/ un cordone ombelicale, e invoca nutrimento,/ così ti penso, e provo a farmi cibo di parole…”
Mariangela Ruggiu con questa ultima raccolta si conferma fine poeta che possiede il linguaggio delle donne e lo rimanda ad altre donne, a uomini che conoscono e riconoscono la lingua della Madre e il suo mirabile canto e suono…
cosa muova l’onda
se fosse mancanza si stupirebbe il mare
si leva dal profondo
come volesse penetrare ilmcielo
s’inarca e si posa
veste gli scogli e li spoglia
cosa muova l’andare e il ritornare
quale fame, quale assenza
non chiedere il senso dei passi
che vanno a te per ritornare
come se fossi tu scoglio
io il mare
due che si amano
camminano vicini
anche senza che si sfiorino
o si guardino
lo vedi che si amano
dal passo sincrono
camminano sul bordo della guerra
e con la mano accostano
i lembi delle ferite
non fuggono
vanno con passo fermo
e con le macerie dentro gli occhi
il mondo ne vede due
eppure è Uno
piove
senti la gioia degli alberi ridono anche quelli senza foglie
ieri la gola era senza voce la pelle ruvida gli occhi pieni di sale
ora scorre acqua su di me come nelle strade lucenti mi attraversa come fossi terra arata
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