
La notte è il giorno dei poeti quando le cose del mondo si nascondono alla vista e perciò i sensi si allertano e l’occhio interiore del poeta si affina, trova la sua dimensione ideale.
I poeti lavorano di notte/ quando il tempo non urge su di loro, / quando tace il rumore della folla/ e termina il linciaggio delle ore.
Scriveva Alda Merini in una delle sue più famose poesie.
Fresca la notte fuga l’estate
te la scorgo negli occhi senza fondo,
quell’azzurro acerbo quasi grigio.
Scrive Iuri Lombardi nel suo Dizionario delle notti edito da Arcipelago Itaca Edizioni , libro dedicato al giovane poeta Gabriele Galloni recentemente scomparso e di cui ho vissuto passo dopo passo la genesi.
La notte è anche quella interiore, sembra volerci suggerire l’autore, un dire acerbo che si spegne nello sguardo e non si fa quasi parola. “La notte è inquietudine esistenziale.”
Un libro delle ombre, delle sfumature, dei chiaroscuri , delle cose non dette, del mondo indistinto, della via di mezzo dove i confini sbiadiscono e i limiti si confondono, dove ogni cosa si enuncia furtiva bisbigliando sottovoce nel silenzio delle cose che sembrano dormire.
Le cose sono sagome sfumate;
il mondo al mondo si è reso indistinto
gli alberi sorreggono il cielo bianco:
albeggiano tra le fronde le notti
chiare.
La notte viene dipinta a piccoli colpi di immagini nitide nell’allertare tutti i sensi, si rovesciano come luci su un palco le parole che disvelano l’incedere notturno di sagome che restano abbozzi, pagliuzze di un vissuto che non ci è dato che intravedere e intuire.
I lupi rovistano la via lattea
nell’incrocio delle ombre sfavillanti
le lucciole accendono il novilunio,
apparecchiato l’asilo sul ramo
al gufo in procinto di un assolo e
all’unisono s’aprano come gemme
i lampioni sul viale dell’ultimo
spettacolo: di uno stacco di gambe.
Una sagoma con l’ombrello aspetta
Le notti scritte e immaginate sono quelle delle città di Roma e di Firenze, due città di cui Iuri è innamorato, se innamorarsi si può allo stesso tempo di due realtà intangibili e fascinose. Perchè il poeta sa che Roma è a due passi dal sud che la città si arrende […] /voluta di spazi che non contengono che Noi a nulla apparteniamo e dell’età industriale siamo comunque il dopo e che Di una città il senso lo fanno le persone…
Il poeta sente l’estraneità dell’essere, di stare al mondo
Sulla strada alla controra mi assale
la vertigine di un solitario
stare al mondo.
In questa raccolta definita dall’autore stesso una “raccolta epicurea” il tempo non si scinde mai in passato presente e futuro ma si mescola in un non tempo dell’urgenza del dire dove ogni cosa si fa presente e torna a essere memoria rifiorente, un ricorso storico continuo in cui tutto è detto e tutto deve ancora enunciarsi e annunciarsi al giorno. “Il presente” ci informa l’autore “è una somma di presenti.”
[…]La notte rupestre è montata sulla battigia
di rena e irradia sul tuo viso
i segni di una malattia misteriosa.
– Quanti anni potevi avere? – […]
[…]Quando nascesti piansi di gioia –
non ti conoscevo allora ma già ti
facevo amico e commensale al tavolo
della nostra casa; la famiglia
non è un noi sigillato da un consenso,
ma questo dolore che mi è consegnato.
La notte è l’ombra del giorno, se non altro il margine e sui margini dell’esistenza, dello stare al mondo si concentra la vita vera. Solo stando al margine si possono vedere le cose nitide e chiare, fare incontri particolari, cambiare continuamente pelle e rimanere se stessi. (Iuri Lombardi)
La raccolta Dizionario delle Notti si sviluppa di fatto in quattro passaggi; la prima parte o sezione così definita lucreziana, dove il buio, il livore delle notti è il protagonista va intesa non tanto come evento fisico quanto morale. Non a caso le brevi liriche si snodano tra Firenze e Roma a mio avviso città simbolo di un epicureismo contemporaneo. La seconda sezione è costituita da epigrammi non rabbiosi, anzi direi da epigrammi quasi sentimentali, d’amicizia; dove la protagonista è la gioia di un incontro. La terza parte o sezione sono poesie risalenti a una decina di anni fa e che ho voluto fortemente riproporre non tanto per la tematica quanto per l’unicità di stile che bene si abbina all’essenza escatologica degli altri testi. Infine, ma non per importanza, l’ultimo capitolo contiene due poemetti che affrontano il tema dell’emigrazione e dell’immigrazione e nello specifico il nostro approccio, sempre un po’ diffidente, con la diversità e il diverso da noi. (dalla nota dell’autore)
Del Dizionario delle notti, che ho visto nascere e crescere e di cui ho seguito le varie fasi di stesura fino alla pubblicazione, ho molto amato il Notturno rupestre che, ci informa l’autore,
nasce da un atto di cronaca dovuto alla scoperta di
un reperto di un paio di scarpette di un bambino in Inghilterra risalente
all’età dell’impero
Notturno Rupestre
I
Il suicidio dei topi da Ponte Milvio
– la nostra corrispondenza non ha
più mittente – sul margine del Tevere
catturato dalle acque di stagione
lede lo scoglio che è in te,
spettina un breve vento i fari
lungo i segreti corridoi dell’infanzia?
Quante volte cavalcando per sorte
la luna hai camminato nello slargo,
tra gli angiporti di Testaccio?
La sera avvampa di lumi sparsi
sulla mensa della città in festa.
– Quanti anni potevi avere? Forse
solo un lustro che ungeva i malleoli,
i ginocchi lividi, mentre tra le mani
liquido colava il giorno perso tra
le pause degli alberi; tra le botteghe
aperte sul Campo Marzio.
Poteva essere marzo e non so cosa
sopraggiunse a pioverti aquiloni giù
dal cielo dell’oggi per l’Aventino sgombro
di un aprile già cigolante, impiccato
allo stipite delle porte esquiline.
– Il tuo passo ho da allora a mente:
forse biblico il tuo nome dimentico
tra i lampi del giorno tardo.
Potrai mai perdonare?
II
Ebbro di quel sole color del vino
nell’imbuto delle scarpe, sul letto
della suola, a cucchiaio dell’incavo
s’è accucciato il solstizio.
Tua madre ti sorprende oggi sulla soglia
con un cesto d’arcobaleno; marzo s’allarga
lungo i margini umidi, tra la darsena
d’acqua dolce di Trastevere.
– Penso che siamo figli del silenzio,
di tanto, troppo silenzio –
Le Idi consumano, nel tunnel già pieno
d’incenso e di mirra, la tragedia;
ed è, comunque vada, vita e solo vita.
La notte rupestre è montata sulla battigia
di rena e irradia sul tuo viso
i segni di una malattia misteriosa.
– Quanti anni potevi avere? –
Lumi di ghiaccio, guazza di un pianto
insipido, celano le gelosie serrate a buio;
i bagnanti ignari trapelano dalle acque
delle terme aventine: la fine è sempre l’inizio
di un episodio precedente.
III
L’arca dalle acque è stata coperta
e su di lei abbiamo trovato il perpetuo;
ti stendi come sul ventre materno,
conti le curve sulla via ombrosa
all’Esquilino. Gli alberi la notte
allarga di mattini scorti nei suoi occhi
e del nubifragio poco rimase:
– dimmi ora cosa è più importante
lo stato o l’uomo? –
Fu in un mattino, all’alba, o poco prima
che ti cucirono le scarpette di cuoio
e presto sarebbero emerse dalle onde
– di te più nulla ho saputo.
IV
La luna appare ad intermittenza
sulla linea discontinua del Tevere,
oltre lo spettacolo a luci spente
della via lattea.
Riemerge dalle acque il relitto
– ora è solo una feluca persa di nomi,
un luogo di un appello impossibile –
Seduto sul margine immagini i volti
chiami per nome i compagni andati;
disegni la violenza dell’urto
mentre su Roma placida s’apre,
ed è volo di gabbiano, l’alba dell’inizio.
– Quanti anni potevi avere allora? –
Pur di vederti salvo ti disegnerei una vita.
V
La guglia infuocata fora ciò che rimane
del ceruleo diradato dietro la curva
del Tevere. Sorretta da bracci possenti
è forse il segno di un lutto da comprendere.
Sarebbero venuti su a frotte dall’oriente
e i molti già s’apprestavano a consumare,
sulle vecchie tavole, la morte di Cesare.
– Ma come si può morire di marzo? –
Eppure ogni mese è possibile di morte
(si può tradire solo quando si ama)
e tra il lezzo delle sue spoglie,
nudo tuo fratello si dà contro lo stipite
esquilino, tra i denti delle rovine aventine,
tra gli archi del Tuscolano.
– Ma quanti amori può avere un uomo? –
ti domandi nel mentre la sera
tinge furiosa i capelli, incendia la fronte.
La notte rupestre cigola di insegne
sul Lungotevere dove fermo rimane
un maggio perpetuo.
Sottili le dita della sua mano, come il suo pene,
tormentano di smania l’antico volgare
rito da dove geme la vita.
Ma se una madre sapesse il crudele
destino del figlio quante volte
rinnegherebbe di averlo dato al mondo?
Il mio dolore gioioso, quasi di luce,
sta nella consapevolezza di averti accanto.
Assieme, lentamente, lesi dalle stagioni
diventiamo adulti: forse uniti dallo stesso destino.
Della barca è crollato l’assito:
per il mare non siamo che due sagome:
senza di te temo una vita impossibile.
Iuri Lombardi sembra voler chiudere qui, con questo testo, (almeno così ci informa nella sua nota di chiusura) la sua esperienza poetica, ma noi sappiamo che è cosa impossibile per chi come lui vive poeticamente in quella straordinaria forma di libertà che è la solitudine.