Ho incontrato il nome di Paolo Cognetti, per la prima volta, con Il ragazzo selvatico: quella copertina mi invitava e, alle stesso tempo, mi respingeva. Un lettore deve fare sempre i conti con il proprio tempo e con le proprie tasche. Così lo lasciai lì, sullo scaffale.
Sono passati un po’ d’anni da quel giorno ed ecco che lo ritrovo vincitore del Premio Strega. Vorrei leggerlo, come avrei voluto leggerlo anni fa, anche se ho una pila di libri sul comodino, alta come una montagna e, ascoltando i pareri di chi non vuole leggerlo, per partito preso, per antipatia, o forse perché non è interessato, me ne convinco. È, di nuovo, la curiosità che mi porta ad aprire la prima pagina come se fosse la porta di un fresco rifugio di montagna.
Certamente il richiamo del mio sangue, per metà marino, per metà montanaro, non ha resistito alla parola montagne e assieme al libro ho provato a leggere un po’ del mio passato, di una memoria collettiva e immaginaria di cui faccio parte anche io.
Ho aperto quella porta. La porta della baita di Pietro, detto “Berio” in dialetto valligiano, soprannome dato dall’amico Bruno. Berio è il protagonista, anzi no, la vera protagonista è la montagna. Così sono andata a vedere quel rudere sul Grenon che Pietro ha ereditato da suo padre e l’immaginario che contenie, fatto di una storia tra un ragazzino di città, scontroso e solitario, e un ragazzo di montagna costretto a crescere in fretta, in un piccolo paesino ai piedi del Monte Rosa. Una storia ambientata in quei paesaggi montani che ho vissuto anche io, ma solo nella dimensione vacanziera, e per brevi periodi, non come Bruno che a quei luoghi ha lasciato la sua di eredità, quella esistenziale.
«Del tetto crollato non c’era piú alcuna traccia. Ma dentro al rudere, in mezzo alla neve, aveva fatto in tempo a crescere un piccolo pino cembro, che si era aperto la strada tra le macerie e ormai raggiungeva l’altezza dei muri. Eccola lí, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino.»
Mi sono trovata di fronte a una scrittura semplice, pulita e bella come difficilmente capita di leggere, una trama dall’impianto classico e non troppo originale che mi ha, però, coinvolta fino alla fine e mi ha lasciato qualche riflessione profonda e un po’ di nostalgia.
È proprio questa nostalgia che ho avvertito il filo che lega un capitolo all’altro, un personaggio all’altro, un paesaggio all’altro, in un gioco di continuità che non ti fa smarrire nella trama. Mi sono sentita parte della cordata che legava Bruno, Pietro e suo padre alla scoperta di quel ghiacciaio che contiene la memoria dell’acqua del passato e fa sì che non si sciolga, se non quando è arrivato il suo momento.
«In quel momento eravamo tutt’e tre sul ghiacciaio, insieme, come non sarebbe più accaduto, con una corda che ci legava uno all’altro, che noi lo volessimo o no.»
La nostalgia per la montagna e per l’infanzia, la nostalgia per la purezza che una cima lontana ispira e la nostalgia per gli ideali, per ciò che vorremmo essere e ancora non abbiamo conquistato.
Mi ha colpito la pacata riflessione di una scrittura che scaturisce dall’animo di chi la montagna la vive profondamente con le sue bellezze e le sue contraddizioni.
La più felice intuizione, che ricorre in tutto il romanzo, è senz’altro quella della madre di Pietro che attribuisce a ogni persona la propria altitudine. Pietro/Berio, un’anima divisa tra città e paesaggi montani, riflette su come, ognuno di noi, abbia una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene. Mi ritrovo a pensare a quale sia la mia e non ho dubbi: è senz’altro il bosco di abeti e larici dei 1500 metri, come per la madre di Pietro. Anche se ho sempre nutrito un fascino per la prateria alpina, le malghe, i torrenti e le torbiere. Ma l’ombrosità del mio carattere mi fa sempre tornare agli alberi e al bosco, quindi, credo che quello sia il mio paesaggio personale.
Alle vette non sono abituata, anche io, come il Pietro bambino, ho mal di montagna, e dover conquistare ogni volta una nuova cima, non mi rende più felice o appagata. L’acqua del ghiacciaio, che congela in inverno i ricordi e poi li restituisce in forma di sorgente, quella che rende felice Giovanni Guasti, il padre di Pietro, a me fa stare male.
«Il ghiacciaio, disse a me e Bruno sul sentiero, è la memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi. Sopra una certa altezza ne trattiene il ricordo, e se vogliamo sapere di un inverno lontano è lassù che dobbiamo andare.»
Forse allora anche le persone sono come gli alberi e quel piccolo cirmolo nato in mezzo al rudere, l’arula, è come un piccolo altare di una chiesa antica, la manifestazione sacra del genius loci che sa mettere ogni cosa al proprio posto. Il pino cembro nasce soltanto al di sopra dei 1200 metri, come Bruno non può scendere a valle a vivere perché sarebbe fuori posto, così il cirmolo non sopravvive al di sotto di questa quota. Pietro lo trapianta non lontano dalla baita, in cima a una roccia che dà sul lago, si chiede se così trapiantato ce la farà a sopravvivere…
Pietro, una volta cresciuto, deciderà di non voler più seguire il padre; è il ragazzo che si trova a dover fare i conti con ciò che vuole essere e con ciò che gli altri vorrebbero che lui sia, è il ragazzo che parte e fa nuove esperienze, è l’uomo che parla la lingua immaginaria dell’arte e della visione, in contrapposizione al dialetto che gli insegna Bruno, l’amico che resta, l’amico che resiste, finché può, finché la montagna non se lo riprende. Perché il dialetto è la lingua concreta delle cose: il larice è la brenga, l’abete rosso la pezza e il pino cembro, quel piccolo pino nato in mezzo alla casa, l’arula. Berio vuol dire sasso, e il sasso è senza dubbio la parte più antica della montagna. Bruno stringe così, con questo soprannome, un’amicizia concreta, un legame che si forma in quei paesaggi di montagna che non si possono dimenticare. Vuole tramandare in Pietro quel luogo di memorie, vuole che Pietro diventi parte del suo paesaggio e quindi della sua vita.
Bruno è un personaggio commovente che mi ricorda la gente semplice di montagna che ho conosciuto nella mia infanzia e che mi procura una nostalgia feroce, come quella di un migrante che ha dovuto abbandonare la propria casa. Eppure, nella sua semplicità, è un personaggio complesso in cui si distinguono pulsioni estreme lasciate in attesa, semi che non possono germogliare in una sola vita, ma soltanto nella sua continuazione. Bruno, lo immagino proprio come un orso, un eremita del nostro tempo, un personaggio invisibile, così lontano dalle personalità narcisiste che viviamo quotidianamente. Mi è simpatico da subito, mi sembra quasi di volergli bene perché Bruno rappresenta quel pugno di persone che resistono nel preservare la bellezza dei luoghi incontaminati e la consapevolezza che un vivere diverso è possibile, anche se non ci siamo più abituati. Bruno è colui che sta lì a ricordare a Pietro e a noi lettori che «La natura non è un posto da visitare. È casa nostra», volendo citare le parole di Gary Snyder.
E persino il suo fallimento nel voler gestire la propria impresa, il suo ideale che non ha voluto barattare al facile guadagno da muratore, è un insegnamento che Paolo Cognetti non ha messo lì per caso. Per essere fedeli a se stessi, infatti, bisogna saper sostenere la sconfitta e la solitudine: due grandi lezioni che ogni persona che vive e ama la montagna impara.
In questa contrapposizione tra i due protagonisti sta la chiave di lettura del romanzo di formazione che ha vinto il Premio Strega, nel diverso modo di affrontare la vita che è incluso nel titolo Le otto montagne. E il vero significato di questo titolo lo scopriamo nella terza parte del romanzo quando Pietro che, dopo la morte del padre, è partito incontro a nuove montagne, le più belle e lontane del mondo, incontra un vecchio nepalese che porta un carico di galline su per la valle dell’Everest: è lui a raccontargli delle otto montagne. I due scambiano qualche frase in nepali, il vecchio gli chiede come mai s’interessi tanto all’Himalaya e, sentendo la risposta di Pietro, esclama: «Ah. Ho capito. Stai facendo il giro delle otto montagne.» Poi, tracciando una ruota a terra con un bastone, si mette a raccontare: «Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi.»
Nel dirlo traccia, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l’altra. Otto montagne e otto mari. Infine disegna una corona intorno al centro della ruota, la cima innevata del Sumeru. Si ferma e poi punta il bastoncino al centro, concludendo: «– E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?» Il portatore di galline guarda Pietro e sorride poi cancella il disegno con la mano… ma Pietro capisce che non lo dimenticherà.
Ed è qui che io, invece, comprendo perché ho voluto aprire la porta di quella baita. Conosco i miei limiti. Non ho mai avuto abbastanza fiato per salire sulla cima innevata del Sumero.
Leggendo questo romanzo ho capito anche perché molti non desiderino leggere Le otto montagne di Paolo Cognetti. Lo descrive, suo malgrado, Pietro, con una metafora, in un passo in cui racconta che il padre, rimasto solo ad affrontare le cime, inizia a far parte della schiera dei solitari che si aggira nei rifugi in cerca di compagni per la scalata, sapendo che nessuno è mai contento di legare un estraneo alla propria corda.
Per salire in cima ci si deve affidare, ritrovare nel proprio sangue un po’ di quella montagna, sapere che la tua sorte, la tua sopravvivenza è legata a quella degli altri e viceversa. Anche per leggere un libro, fino alla fine, bisogna affidarsi, all’autore, al suo linguaggio e al suo paesaggio immaginario, vivere per un piccolo tratto di strada legati stretti alla sua corda.
Così sono tornata a leggere il suo blog e ho trovato, nel racconto che fa della stesura di questo libro, datato 8 novembre 2016, una frase che vi voglio riportare: «…Ma a noi piace quando in montagna si perde il sentiero, e te ne devi inventare uno. E a me personalmente piace essere quello che lo inventa, ma anche essere quello che segue l’inventore.»
Un libro, come la montagna, insegna a perderti, a tracciare o a seguire un nuovo sentiero. È racchiuso qui il patto di finzione con Paolo Cognetti: avere il coraggio di perdersi per ritrovarsi, di seguire il lungo viaggio delle otto montagne per poter rispondere alla domanda del vecchio portatore che, raccontando di mari e di montagne, disegna una ruota in terra con un bastone.
«Così adesso conoscevo anch’io la nostalgia della montagna, il male da cui per anni l’avevo visto afflitto senza capire.»
E in questo è ben riuscito Otto montagne, io sono riuscita a leggerlo dall’inizio alla fine e sono una lettrice di romanzi che si annoia molto facilmente; è uno di quei libri che sembrerebbe poter accontentare tutti. Leggendo a distanza di un anno (si sa io sono lentissima e non posso cambiare a quarant’anni passati) queste mie riflessioni che avevo messo giù in bozza per una rivista (altra cosa andata a monte per motivi che ancora non conosco) mi si è affacciato alla mente un pensiero ricorrente insorto durante la lettura di autori contemporanei anche piuttosto famosi o che hanno pubblicato per grandi editori e vinto premi. Ho pensato che questo è il tempo dei libri politicamente corretti, scritti bene, che presentano una trama che si può seguire con facilità, senza sforzi eccessivi da parte del lettore e che, magari, qui e là proiettano qualche riflessione brillante… Però io sono ancora dell’avviso (oggi più che mai) che a noi servano libri che scuotono, che aprono ferite. Sì io sono ancora convinta, come sosteneva Emil Cioran, che un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle, deve essere un pericolo. E l’unico pericolo che io ho avvertito leggendo per la prima volta Paolo Cognetti è che mi stessi uniformando a questo pensiero del politicamente corretto che striscia in maniera invasiva nell’ambiente culturale. Ho voluto anche io fare una lettura che fosse in sintonia col momento che viviamo, in un certo senso ho tradito me stessa perché ho lasciato sullo scaffale, nelle biblioteche, sul comodino chissà quanti libri che mi stanno chiamando per infliggermi quelle ferite di cui avrei bisogno.
Paolo Cognetti, «Le otto montagne», Einaudi, pp. 180, € 18,50
Castiglione del Lago, Giugno 2017-Novembre 2018, Valentina Meloni
L’ha ribloggato su Alessandria today.
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