Haiku dell’inquietudine (Giovanna Iorio)

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«Vivere è morire, perché non abbiamo un giorno in più nella nostra vita

senza avere, al contempo, un giorno in meno.»

(F. Pessoa, Il Libro dell’Inquietudine)

Quale il paradosso che si cela nel titolo Haiku dell’inquietudine? Con questa domanda termina «La forma attenta del pensiero» nota critica di apertura di Luca Cenisi all’ultima raccolta di haiku di Giovanna Iorio per la collana Essenze di FusibiliaLibri.

Da tale domanda io, invece, vorrei partire perché contiene il nucleo–pensiero di questi versi. Ispirati al Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa i componimenti di Giovanna Iorio sono microcosmi di esistenza in cui convivono luci e ombre, oscurità e improvvise illuminazioni; ma è soprattutto il sentimento delle cose ombrose, lo Shiori, a incasellare l’immaginazione pensante entro quella linea di confine mai del tutto netta che separa il giorno dalla notte, il visibile dal percettibile. Questo confine d’ombra è sottolineato e reso ancora più suggestivo dalle opere a corredo di Eliana Petrizzi che dell’ombra ha fatto materia plasmabile nei suoi oli. L’olio ha, di per sé, la caratteristica di trattenere la luce e la possibilità di creare quelle velature che suggeriscono la mescolanza soffusa dei paesaggi cromatici di confine.

Su questo confine insistono i versi stratificati sulle infinite possibilità del transitorio e sulla pluralità dell’essere. «Sono come me/le nuvole – passaggio/fra cielo e terra.»

L’ineluttabilità dell’esistenza che si manifesta nelle cose del mondo è quell’essere altro che passa dall’identità plurale come dal naturalismo lirico di Bernardo Soares: «Nuvole… Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia.» (F. Pessoa, Libro dell’inquietudine)

Gli opposti conviventi che abitano la corporalità di Pessoa – e che inevitabilmente immalinconiscono l’esistenza e la rendono inquieta – traslati in diciassette sillabe: «Vivono insieme/ in un unico corpo/ il re e il suo schiavo»; «Solo le nuvole/ sono reali oggi e il cielo/ inesistente.»; «Vivere è essere/ un altro. Essere nuovo/a ogni alba nuova.»

Sono moltissimi i richiami diretti e indiretti ai frammenti dell’inquietudine di Pessoa, per la Poeta haijin andare a scovarli è anche una ricerca all’interno di se stessa, in quelle cantine dell’animo (p.45) percorse da ombra e dimenticanza. L’ordinarietà delle cose del mondo che non stupiscono più muove, invece, sia l’animo inquieto del Poeta portoghese: «All’improvviso ho sentito per quell’uomo qualcosa di simile alla tenerezza. Ho sentito in lui la tenerezza che si prova per la comune normalità umana…» (ibidem) sia quello della Nostra haijin: «Spalle comuni/ di un uomo nella folla/ la tenerezza.»  E ancora: «Assurda e fredda/ la tenerezza che provo/ per un passante.»

Nell’ultima parte, Malinconia, i toni crepuscolari si fanno più accesi, più intensi e immediati i rimandi A F. Pessoa: «La malattia/ del mestier di vivere/ è la nostalgia»; «Sono le nuvole/ lontane dal rumore/ una finzione»; «Cena fra gli orti/ all’ombra di una pergola/ se io fossi un altro»; «Ci sono giorni/ che sono filosofie/ note a margine.»

Il sentimento delle cose ombrose (Sabishisa) e lo stato d’animo malinconico (Shiori) sono due dei quattro principi estetici che caratterizzano i componimenti haiku e che qui percorrono tutta la raccolta, suddivisa in quattro letture, ognuna con dedica: Anima, Inquietudine, Conflagrazione, Malinconia. Questi due principi, che si trovano meno frequentemente, rappresentano i sentimenti più oscuri, più tormentati, propri dell’animo inquieto,  in contrapposizione ai principi di serenità, meraviglia e pace, che fanno parte di quella leggerezza Karumi a cui lo Haiku nella tradizione di Basho ci ha abituati. Anche Sabishisa e Shiori, però, fanno parte della natura e del vivere umano, in special modo dell’animo inquieto, che s’interroga e che, pur aspirando alla quiete, in un certo qual modo la rifugge. «Ho grandi stasi/perfino nell’anima periodi/ d’ombra.»

Certo la ricerca di serenità che contraddistingue la scrittura Haiku sembra cozzare con il sentimento di inquietudine, ma proprio qui si snoda  il paradosso da cui siamo partiti.

L’inquietudine deriva dalla parte più oscura di noi stessi. Risposta alla stasi, alla morte e alla fissità. Quando il nostro io più profondo e fecondo necessita di stimoli, l’inquietudine arriva con i suoi pungoli e i suoi fuochi che svelano forme e sostanza. E quando si muove, senza alcuna coerenza apparente e necessaria, mettendo in moto stimoli e nuove spinte esistenziali, allora l’anima diventa «Un gallo ignaro/ che canta nella notte / come un bambino» perché come per Pessoa «I fuochi fatui della nostra putredine, sono almeno luci nelle nostre tenebre» e perché «Vivere è non pensare» (ibidem). Lo ricorda Giovanna in una improvvisa luce folgorata di giallo: «Vivere non è/ altro che comprare/ banane al sole.» Forse allora «il segreto» – scrive Franco Arminio nella sua nota di lettura –  «è proprio accordare sguardo e pensiero […]. Il segreto è intrecciare il dentro e il fuori, farlo quietamente.»

Tuttavia l’anima necessita di una Conflagrazione, necessita tornare al suo fuoco originario. L’inquietudine esistenziale è il segno di un’ intensa vitalità dell’anima, che non si accontenta di ciò che vede ma va alla ricerca di ciò che la muove poiché aspira a una meta degna dei suoi sforzi, dei suoi ardori.  L’inquietudine è «Il vecchio cielo/dove tutte le stelle/ ricominciano». È, per estensione, il medesimo principio del Ki facente parte dell’estetica – cinese prima, giapponese poi – che muove nascostamente e in silenzio la vita stessa.

La consapevolezza di questo mistero fecondo, appartenente ai luoghi inaccessibili dell’anima, porta la Poeta a cercare e a cercarsi sull’orlo dell’abisso: «Senza volerlo/ su quale segreto ora/ mi sto affacciando?». Quella dell’inquietudine è una necessità che non domanda di esistere ma si manifesta,  come si manifestano le ombre sui muri e lo scrivere sul foglio. Perciò la scrittura è ombra della propria esistenza, manifestazione tangibile del luogo senza dimora.  A tal punto che la scrittura va a coincidere con l’esistenza stessa, quasi che, senza questa manifestazione del proprio essere, non sia possibile: «Il cadavere /delle mie sensazioni / sempre insepolto»; «Senza scrittura/ ho trascorso dei mesi/ non esistere.»

E poi si ritorna alla vita dal luogo remoto, quasi una resurrezione innescata da una sorta di metafisica della morte espressa in versi: «Stendo la mano/ verso la penna e rientro/ graficamente.»

Ciò che si vede è ciò che si è, un luogo in cui anche l’invisibile assume la propria forma: «Solo una macchia/ d’inchiostro sul foglio di /carta. Coscienza.», ancora luogo e paesaggio in cui il pensiero plasma la materia e agisce come rappresentazione del Sé-ombra: «Mi paragono/ a una mosca e subito/ sono una mosca.» «L’eco e l’abisso/ sono altro nel mio essere io / pensando mi creo.»;  «Ciò che vediamo/ non è ciò che vediamo/ma ciò che siamo.» Perché per Pessoa «è in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo» (ibidem).

E tuttavia questa manifestazione dell’essere intimo e inquieto che si nasconde in noi è sfuggente, per sua stessa natura mobile e fluttuante, impossibile da fare del tutto proprio: «Ma se mi muovo/ per scrivere parole/ esse scompaiono.» Ecco allora che il paesaggio interiore è mutevole allo stesso modo del paesaggio esteriore mosso da stagioni sempre uguali e tuttavia sempre diverse.

«Il peso del sentire! Il peso del dover sentire!» (ibidem). È sempre l’inquietudine a muovere e a scompigliare quella monade intima di cui si ha nozione (haiku pag.79) a tal punto che si ha voglia di quiete, di una pausa da quell’incessante giogo che è l’esistere: «E ho voglia di/gridare nella testa:/“Fermati anima.”»

La natura non è più soltanto – come nei canoni stilistici classici dello haiku – metafora esistenziale, rappresentazione dei sentimenti umani, viceversa Giovanna Iorio sembra voler ribaltare questa concezione trasferendo i propri sentimenti nella natura: «Un po’ della mia/ inquietudine nelle/ gocce di pioggia.» Eppure non si tratta di una vera e propria umanizzazione, semmai della rappresentazione poetica di quel paesaggio simbolico di confine, quella zona d’ombra di cui abbiamo detto, in cui anche le emozioni trasbordano come nella teoria dei vasi comunicanti.

E, paradossalmente, quella delle ombre è una scrittura indiretta, come indiretta è la scrittura dello haiku che non pronuncia mai la prima persona e che si avvale dell’espressività della natura per dire gli stati d’animo della presenza e dell’osservatore. Il non detto, in poesia, ha sempre una valenza rivelatrice e anche qui l’anima non si pronuncia, forse perché, come scriveva Rainer Maria Rilke: «le sue parole vanno a finire in quel luogo interno che non si conosce e in cui non si sa cosa accada…» (in Anima, cit. esergo) ma, se esiste, Giovanna Iorio in questo libro ha tentato, con la sua poesia, di darcene testimonianza: «Com’è difficile /descrivere l’anima: è/ un’entità reale.»

 

Valentina Meloni

Castiglione del Lago, 10 /02/2017

 

 

articolo precedente pubblicato in Diwali Rivista Contaminata n.XVI

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