Memorie e presenze femminili in “Inchiostro” di Emilio Paolo Taormina
“Il bambino di una famiglia palermitana, benestante e ospitale, attraversa le vicende della seconda guerra mondiale e vive lo smarrimento e il dissesto generati da lutti e crolli, bombardamenti, arrivi di sfollati, passaggi di truppe, alleate o nemiche. In questo contesto, costellato di aneddoti e incontri con personaggi anche eccentrici, declinati soprattutto al femminile- a conferma di una cornice matriarcale salda e coesa- il protagonista sviluppa la sua conoscenza della realtà…”
Introduce così Francesco Scaramozzino i racconti d’infanzia del poeta e scrittore siciliano Emilio Paolo Taormina pubblicati da Edizioni del Foglio Clandestino con il titolo “Inchiostro”. Ed è inchiostro di memoria, fatto di una prosa semplice ed essenziale, quello che muove il ricordo lontano, eppure così umanamente vicino, della vicenda esistenziale intima dell’autore che si fa universale attraverso le storie condivise e i particolari: quei piccoli eventi abbandonati in luoghi lontani della memoria, che sono risvegliati dalla poesia del racconto con delicatezza e levità.
Del resto tutta la produzione di Emilio Paolo Taormina è intrisa di memorie, di luoghi vissuti e immaginati, di ricordi e incontri importanti ma mai invadenti, alimentati da quella nostalgia dell’esistenza che rende ancora più vibrante il tessuto poetico e narrativo. Anche in queste pagine, infatti, aleggiano presenze che si fanno quasi materiche attraverso le immagini descritte: i personaggi femminili sono protagonisti di un racconto di vita che risveglia sensazioni, turbamenti, emozioni velate e svelate che si concretizzano e si legano al filo del tempo.
La prima di queste presenze femminili fa la sua comparsa da subito irrompendo con quella carica caratteriale che è difficile da dimenticare, tutta bianca e con il ferro da stiro in mano urlando: “Disgraziatu! tutti i ligna ti rumpu”. Fina, assieme a Rosa fa parte del “corredo domestico” della casa di campagna palermitana, è la cameriera più giovane, quella attraverso cui il protagonista scoprirà le sensazioni più profonde e contraddittorie.
“Un tardo pomeriggio che nel baglio non c’era nessuno spinsi la porta della stanza di zu’ Ninu. Fina gli stava seduta sulle gambe con la veste alzata e le gambe nude.[…]L’abbraccio di Fina e zu’ Ninu non mi provocò turbamenti. Mi tornarono in mente gli occhi senza vita della scimmia. In un breve momento il mondo mi apparve diverso. […]Era strano come un abbraccio sensuale mi rivelasse cos’era la morte. In quel preciso momento apprendevo che Giuseppe, il marinaio ligure, non c’era più.”
L’amore prende subito il posto della tragedia laddove la morte del giovane moroso di Fina sembra essere un vento che aleggia senza voler turbare o sconvolgere nessuno. Cos’è la morte per un bambino in quegli anni di guerra? Forse è una presenza silenziosa occultata da una protezione materna amorevole; il bambino durante i bombardamenti cerca le braccia materne, si fa scudo con il corpo della nonna, in quel nido protettivo si sente quasi invulnerabile e capisce il pericolo e la brutalità dell’esistenza solo da un’assenza che si palesa urgente nella solitudine dell’incontro amoroso tra Fina e zu’ Ninu.
La nonna è la presenza femminile più forte di questa raccolta, donna energica, solida e generosa, autoritaria e vagamente burbera nel cui petto, che conserva profumo di spigo, il piccolo si rifugia. Egli dorme con lei nel letto grande, la osserva spogliarsi e pettinarsi alla toilette, sotto la sua ala protettiva affronta la guerra, le distruzioni e i bombardamenti. Più sommessa e quasi impercettibile la figura materna avvolta da un alone di distanza a causa della cattiva salute. Tracce di queste memorie si trovano anche in varie raccolte di poesie dell’autore e sono di una dolcezza commovente che non abbisogna di commento.
dov’è/la ninnananna/ che mi cantavi/ nel rifugio/ tra esplosioni/di bombe/e crepitio di mitraglie/le parole/erano allegre/e sul tuo volto/era scolpito/un sorriso/come se fosse/un fuoco d’artificio[1]
ho sentito/nel sogno/una mano bagnata/coprirmi il viso/ricordo/mia madre/un giorno di pioggia/sotto un bombardamento/correre/ verso il rifugio[2]
In questa casa aperta alle persone in difficoltà, agli amici e fatta di un viavai di genti e di domestiche, spesso provenienti da situazioni disastrose, si affaccia Titta, occhi azzurri e profondi, primo invaghimento di fanciullo che con innocenza proferisce un amore impossibile: “Titta quando sono grande ti sposo” […] ”Angelo mio come fai a sposare la tua mammina” risponde lei con dolcezza. Ragazza delicata e pulita Titta si contrappone a Nunzia, altra domestica che cerca, invece, nel bambino un motivo spassoso per divertirsi quando lo scopre nascosto negli armadi, lo rincorre e lo fa ballare come fa il gatto con il topo premendo la sua faccia sul basso ventre. “Mi faceva scivolare sotto la veste. Sulla bocca sentivo un animale umido che mi toglieva il respiro” ci confida l’autore, mantenendo intatta, per tutta la narrazione, quell’innocenza disarmante che caratterizza lo svolgersi di questi piccoli affreschi d’infanzia.
L’approccio con la scuola è un trauma che si evidenzia immediatamente attraverso la descrizione della suora dell’asilo che, da subito non ispira simpatia né al bambino né tantomeno al lettore. “Era magra come un bastone di scopa. Mi accolse con tre bacchettate sulla cattedra e un secco:- A posto!-. Aveva occhiali spessi. Labbra sottili. Teneva la bacchetta in mano come la frusta di un domatore.”
Potente l’affresco storico che prende vita attraverso gli occhi di un bambino: ”In epoca fascista era impensabile che un bambino si facesse prendere dal ghiribizzo snob di scrivere con l’altra mano. Tutti allineati con la mano destra alzata, non c’era assolutamente posto per i sinistri.”
Le incomprensioni e le difficoltà scolastiche, i rimproveri di madre e nonna, le prese in giro dei compagni, la lontananza paterna, tutto ancora trova rifugio nell’armadio in cui il bambino si abbandona a un pianto silenzioso covando pensieri tranquillizzanti e idealizzati: “Titta mi pareva irraggiungibile. Bionda, dolce, un po’ cicciottella -non so s’era bella, ma era come un barattolo di miele”.
Con il trasferimento in campagna iniziano nuove avventure e la separazione da Titta si trasfigura nella memoria del bambino in una visione mistica “La sera quando la nonna mi faceva ripetere le preghiere, chiudevo gli occhi e vedevo Titta con i capelli biondi come una Madonna”.
Quando la guerra finisce, il ritorno in città segna la perdita della libertà, che il ragazzo cerca di riconquistare attraverso i vagabondaggi con nuovi compagni poco raccomandabili: Orangotango, Pippo e Topo. Passerà anche questa fase, in bilico tra bene e male, durante la quale, nel primo giorno di scuola della seconda elementare, il nostro protagonista scopre l’innamoramento per la bambina dai capelli neri… e, ancora una volta, la curiosità e la scoperta prendono il posto della malinconia: ”L’immagine della bionda Titta dopo aver resistito a cento tempeste era caduta giù come un muro di carta”.
Le presenze discrete dell’infanzia rimaste in sospeso durante la guerra si fanno memoria. Rosa muore durante i bombardamenti; il marito della lavandaia Donna Maria muore sotto le bombe; di Nunzia si tace la nuova mise di calze di seta e roba di contrabbando; Titta è un ricordo già lontano. Si insinua nella narrazione una nuova presenza “Maria Grazia, la stiratrice, era una giovane scura di carnagione e di una bellezza araba. Era di poche parole e diligente.”
Il tifo tiene il ragazzo lontano dai vagabondaggi e segna la linea di demarcazione assai sfumata in cui si cessa d’essere bambini e si entra nella pubertà . Gli occhi della nonna iniziano a velarsi di quella consapevolezza che si acquisisce quando si è prossimi all’ultima meta. “La nonna andò verso la morte come se avesse con lei una tacita intesa”.[…] “Se ne andò senza essersi mai lamentata”.
Nel frattempo Mariagrazia aveva preso in mano le redini della casa e s’era insinuata anche nel cuore del ragazzo. Quando parte per il collegio l’ultima immagine è quella dell’odore di cardo che emanava il corpo della ragazza quando si distendeva sulla paglia per riposarsi dai giochi. “Se fossi grande ti sposerei” le aveva detto e, con la delusione conscia e brutale di non essere abbastanza grande, all’ingresso del collegio lascia andare, assieme a tutti gli altri ricordi, quell’episodio che lo fa sentire un bambino idiota.
Termina qui il più lungo dei due racconti, quello più denso di significati e di vissuto, in cui si concentrano le presenze dell’infanzia; si delinea, invece, nel secondo e ultimo racconto dal titolo “Esame” il salto nella maturità sessuale attraverso due figure femminili che segnano altre prove da superare oltre a quella dell’esame di maturità. L’incontro con una prostituta, Alfa, e il conseguente rifiuto alle sue offerte d’amore chiude il racconto e marca il momento cruciale in cui il ragazzo decide che tipo di uomo essere. Vittoria, la sua ultima ragazza, è un pensiero costante, la delusione più cocente e, nello stesso tempo, l’ignara artefice di una consapevolezza d’essere che delineano, oltre a un carattere timido, un animo puro e ingenuo, quasi come quello del bambino che fu all’inizio della storia con l’angelica Titta.
La delicatezza che permea la scrittura di Emilio Paolo Taormina non cede mai alla trascuratezza di una narrazione scialba e priva di contenuti. Ogni episodio, anche il più insignificante, pur circoscritto dall’alone rarefatto dell’immaginazione, è una traccia di memoria che scorre in immagini animate da una lingua poetica illuminata da una mente brillante e vivace. Taormina usa, anche qui, come nella poesia, la tecnica del frammento che ben si accorda alla narrazione di memoria e che è perfetta per andare a frugare tra ricordi così lontani e delicati come quelli dell’infanzia. Ricordi che, a volte, sono soltanto dei flash che accendono emozioni assopite e disegnano, in filigrana, il ritratto di sé stessi appena abbozzato, come lo sfumare del sogno, che tende a svanire non appena ci si sveglia.
È tutta qui la forza di questo libro tratteggiato a matita: gli spazi percettivi sono così ampi e indefiniti che si finisce per entrare in questi racconti in silenzio, come in un sogno, restando in disparte; nascosti anche noi in quell’armadio dell’infanzia, lontana negli anni, eppure ancora così vivida e reale da farci quasi credere che il tempo non sia passato davvero.
( Valentina Meloni )
Recensione uscita sul n. 20 di luglio 2016 della rivista di letteratura Euterpe a tema “Assenze, mancanza”. Puoi scaricarla a questo link gratuitamente.
Note
[1] Tratta dalla raccolta inedita “La cengia del corvo” di prossima pubblicazione per Il Foglio Clandestino.
[2] Edita in “ Le regole della rosa” Il Foglio Clandestino