LA POESIA UNA PIUMA
Caro Iuri, sono qui che passeggio lungo il lago, tra le mani tengo i tuoi versi. Leggera una bianchissima piuma va posandosi ai miei piedi. E’ impalpabile e delicata, appena curva, ma geometricamente perfetta, si regge in linee sottilissime, un biancore d’indecifrabile consistenza. Penso che sia venuta anche lei, caduta dall’ala forse di un longilineo airone, a dirsi metafora dei versi che leggo, cesellati in partiture finissime di immagini e scorci e mondi marginali e paralleli come quelli che la poesia conserva intatti ancora prima della parola e del linguaggio. Versi bianchi come bianco l’inverno che si srotola in un diario di affreschi ipotetici e inusuali dal giorno dell’anno più corto al crepuscolo di febbraio, il mese insipido come lo definisci tu, fino alle Idi di marzo. In questa silloge riapri il dialogo tra il poeta e il tempo, tanti i riferimenti temporali che si stagliano a rimarcare come il tempo sia sovrano, e tracci il segno di misura della luce che divarica gli anni dell’umano per scoprire una falla di minuti in cui si annida la poesia: Mia madre nasce a marzo, il mese difficile /dove la sera, in un tempo perso in cortili /senza vento, specchia la fine eguale al principio /di un fiotto di gemma da una roggia spaccata. Lo rimarchi perfino nella punteggiatura, nel susseguirsi di quei due punti che indicano continuazione, che pongono gli enunciati sia come causa che come conseguenza dell’altro, ribaltando persino l’ora detta e battuta dall’orologio nel buco nero del presente.
L’orologio batte l’ora nel pomeriggio,
rorido di bucato steso, tra le insidie
dei fili tesi il nodo indissolubile del vento
che si fa casa in una sera chiara,
lampi di approvazione attentano
di bave rosa la volta: ricordavo l’insegna
di un vecchio bistrot: quanti anni fa?
Nulla è impressionante quanto il presente.
Il corpo esulta sulla terra tra brandelli
d’acqua dolce. Ma non conosco sepoltura
migliore, quel senso vago della sosta,
se non nel restare in piedi, assonnato:
della terra so il credo, il mistero, la religione.
L’orologio batte l’ora del pomeriggio,
attonito smonta le sagome degli alberi neri:
l’esaltazione esplode e sono fiori di campo
i sorrisi votivi lasciati sulle labbra.
Squarcio temporale fatto di tue minute descrizioni, di angoli bui di città, la tua amata-odiata Firenze, di attimi rubati ad amplessi tra gambe divaricate come meridiani dell’assoluto.
Nel giorno dell’anno più corto
le larve bagnate della notte
si trascinano lungo i cantoni,
gli sdruccioli il solstizio nulla
ha della gioventù. In questa
notte, appena accennata a sera,
lasci gli stivali dietro la porta –
il tempo di dormire per non sentire dolore –
ed è già un gran fuoco di luci. […]
Ed è incredibile come un verso tenga/ in tensione/ l’atleta, / l’acrobata sul filo, sull’orlo del cornicione. Devo rubare versi ai tuoi versi per dirlo anch’io con le tue parole, delle tue stesse parole, versi, perché abile tu definisci tra le righe il compito del poeta che è quello di creare connessioni cerebrali tra personalità diverse, di tendere fili e ponti tra la visione scorta in un pre-tempo e l’immagine increata e ricreata di chi viene chiamato alla tua poesia. Tu che ti affidi ad essa, alla poesia, cesello implacabile dell’artigiano e batti e lucidi e aggiungi e togli fino alla precisione dell’imperfetto canto, quello del sentimento mai detto e mai svelato, pure esistente, posto all’angolo della tua bottega come pinocchio impertinente. Parise prese l’avvio dalle lettere, dalla semplicità dell’erba, dalle piccole cose per i suoi Sillabari, ma tu stravolgeresti le tensioni per dire l’indicibile e allora ti fermi sulla soglia, solo suggerisci che oltre le lettere del nostro alfabeto ve ne siano altre, mai dette, mai cantate poste in alfabeti sconosciuti di cui solo s’intuisce la presenza. Quell’intuizione che il poeta sa essere fondamenta del suo dire: Scaccio artigiano scaccio il mio pinocchio:/un sillabario impossibile/da cantare.
La tua è una poesia sorretta da un pensiero strutturato, dove la parola poetica soggiorna nella premessa del romanzo, che, nel caso tuo è pur sempre ancora vergato in prosa poetica per grandi tratti. E come potrebbe essere altrimenti?
Il tuo è l’occhio di un romanziere, di chi è ancorato al tempo, alla storia, ma poeta di un fine epoca in cui gli echi novecenteschi dello stile s’intrecciano alla premessa consolatoria di un’era che sta giungendo al suo tramonto. In questa fine, Sulla soglia che divide il mondo/ civile da quello operaio, / sulla soglia del fiume che innalza/ il lenzuolo di concedo tra i balconi /e le finestre piene di luce, in questa epoca di transizione tra la caduta dell’io e l’estrema ostentazione di un sé oggettivato, ancora più presente lì dove si tenta nasconderlo fallendo, c’è sia mestizia che consolazione, tu ne registri attento la presenza e ne fai i pilastri da cui declinare versi.
Come è importante avere un pensiero,
rimanere sobri convinti di sé:
importante è altrettanto smontare
quel pensiero, essere altro da un istante
prima spesso è un crimine rimanere
immortalati sulle nostre posizioni.
Il gatto prima di avventarsi sul topo
deve disegnarlo. Sulle maggesi, fasciata
dalle nubi basse, ferito sono una gazza.
Ognuno deve porre fine al suo io,
apparecchiare il lume dell’umano,
inondare di luce, se pur timida,
la stanza del suo essere al mondo.
La poesia sì, attende alla morte dell’io ma anche alla conservazione della lingua astratta dell’idea, dell’immateriale congettura che resta solo nella parola scritta e nei dizionari, perché nell’uso quotidiano consumati – come tu ricordi in nota a fine testo citando Pier Paolo Pasolini – nel linguaggio del consumo e della multimedialità.
Leale mi aggiro tra i nomi d’altri diversi, /leale mi batto come un leone – per questione/ anagrafica – la mia lingua è quella del Tommaseo, / in uno stile – sgrammaticato, esule da un / linguaggio di stato – si approva alla disubbidienza /civile. Da lontano provengono le nostre origini, / il nostro sorgere in un’alba d’aprile, esuli/nella sera o reduci di un viaggio perpetuo…
Io, però, non desidero fermarmi alla restituzione dei tuoi versi, agli echi novecenteschi, ai rimandi colti e sapienti, ai novenari e settenari, agli endecasillabi posti in cadenza musicale solo ove necessario a ritmare la tensione narrativa e immaginifica. Ti so lettore di prim’ordine, fine conoscitore di lontani poeti e prosatori semi-sconosciuti, hai acume e visione critica, già figurata da anni, oserei dire da decenni. Quello che mi muove a scrivere, a dirti con parola inadeguata, è questa tua ricerca della tenerezza che si arresta al lezzo del corruttibile, del corpo e del mondo che invade la parola con parola di commercio. Io ti chiederei, invece, se ancora la Poesia sia merce inconsumabile, come affermava Pasolini, o se mercificata anch’essa al ripiego dei favori, delle marchette di scambio, del potere di poco superiore all’altro solo per via delle giuste conoscenze e appartenenze. A te che definisci randagia la tua esistenza, non perbene, a te che vedi il cielo in un bicchiere sparso di stelle, a te che so essere al di sopra delle parti, come solo può essere chi sbaglia e ci rimette testa e collo, che non si vende per una fama improbabile, che riconosce il dissimile nel simile, che si dona con slancio quando trova ciò che cerca la sua parte di anima incorrotta che chiede asilo, perchè sai essere la poesia destinata ai tempi lunghi, al fallimento dell’esercizio del presente, se non addirittura inascoltata.
Ti chiederei se quel sarto, cui accenni con tocchi d’invisibile dettatura, non ci abbia cucito addosso gli abiti sbagliati, se abbia mancato il tempo, se abbia mancato la missione e il luogo, se per fretta o disattenzione, non abbia per caso tagliato più stoffa del necessario lasciandoci la carne nuda ed esposta in luogo di un’armatura che ci avrebbe unti di gloria in prima linea. E perché sento questa tua malinconia fondersi alla liturgia della morte, perché ti sento quasi bisbigliare: la luce al tuo cenno m’ha lasciato/ e l’anima è nuda/ sotto il cielo del tuo sguardo, per dirla con tre versi della preghiera di Roberto Roversi i cui echi lasci detti al cruciverba della croce, ai rimandi al vento e ai toni crepuscolari?

Crepuscolo di febbraio
Del sole poco rimane se non un fuoco
breve che si sorprende come a covare
sotto la cenere, a germogliare un altro mattino.
– Mai come adesso mi ero accorta – accenni
nella tua magrezza – di come sta terra
è piena di ponti – non vedi?
D’altronde il crepuscolo sfascia la guazza,
il freddo irreale, s’alza in zampilli
infuocati sui cigli roridi di fango.
La luce afona si scompone nel fiume:
siamo nati a torso nudo coperti solo da acque
che qualche sarto ci ha cucite
come fossimo invisibili.
Firenze ti si è attaccata addosso e la sua parola la porti in un distico come in un vessillo di salvezza: L’anno è iniziato con inquietudine/s’avesse a perdere l’abitudine.
Sai è strano come in te si cuciano l’ironia della decadenza dei nostri tempi marci allo stelo della tenerezza e come questo tuo linguaggio impregnato di inquietudine si lasci trapassare da parte a parte dai nostri occhi: Il cardinale non offre omelie /occupato in certe sue manie… Ma più di tutto come tu sia capace di chiedere perdono in apertura del disvelamento, tu che non ti vendi alla fine, sei l’amico dello scherno, copri col sorriso la vergogna e sai affondare di stiletto la profondità della parola silenziosa e l’intima solitudine dell’altro che non osi mai disturbare: Non ho fatto in tempo a baciarti la fronte, /te ne sei andato, figura persa /nel pomeriggio già bruno sul presto, /vagabondo nella spirale amena /nello zampillo, nello sgombro dell’ombra, /di palazzi nuovi di cemento. / […]Perdoni la mia cecità? L’irruenza /Svanita a ciuffi tra i capelli? L’amore/Che fu è ancora amore: un fitto epistolario.
Cammino in questo tempo di bonaccia tenendo ancora in mano una piuma, la tua poesia, staccatasi da un volo a planare sotto nubi cariche e opprimenti, leggera ma con quella capacità industriosa di chi sa levarsi in alto con un alito di vento o con una vigorosa spinta d’ala.

TROVI IL SARTO DI SAN VALENTINO DI IURI LOMBARDI QUI
Castiglione del Lago, 26 Giugno 2019

Iuri Lombardi (Firenze, 1979), poeta, scrittore, saggista, drammaturgo. Ha pubblicato per la narrativa i romanzi: Briganti e Saltimbanchi, Contando i nostri passi, La sensualità dell’erba, Il cristo disubbidiente, Mezzogiorno di luna. Per la Poesia: La Somma dei giorni, Black out, Il condominio impossibile, Lo zoo di Gioele, La religione del corpo. Come racconti: Il grande bluff, La camicia di Sardanapalo, I racconti. Per la saggistica: L’apostolo dell’eresia. Per il teatro: La spogliazione, Soqquadro. Vive a Firenze. Dopo essere stato editore, approda con altri compagni nella fondazione di Yawp – l’urlo barbarico.