La nevicata e altri racconti di Massimo Acciai
postfazione di Valentina Meloni
“Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome,
e per citarle bisognava indicarle col dito”.(Cent’anni di solitudine, Gabriel Garcia Màrquez, 1967)
Emanuele, protagonista di due dei cinque racconti di questa raccolta -appena uscita per PoetiKanten Edizioni– che Massimo Acciai mi ha invitato a leggere, è la voce narrante da cui prende vita la narrazione; personaggio di ispirazione autobiografica caratterizzato dall’autore fiorentino attraverso la lente dell’introspezione in rapidissimi tratti:
“Emanuele odiava la scuola. L’aveva sempre odiata, fin dal primo giorno alle elementari. L’aveva poi detestata alle medie, l’aveva maledetta alle superiori e perfino l’università aveva aborrito pur frequentandola e riuscendo a laurearsi in lettere entro i termini stabiliti. Era sempre stato uno studente mediocre, attento a non essere bocciato o rimandato in nessuna materia solo per non prolungare ulteriormente quel tormento. Faceva solo quanto era sufficiente, e non di più. Mirare ad un voto superiore al sei lo riteneva una sciocca perdita di tempo. Le materie non lo interessavano, ciò che lo interessava lo trovava tutto al di fuori della scuola, nelle sue letture private. Aveva attraversato gli anni di scuola come chi passa, un giorno di pioggia, per una strada che conosce bene, con gli occhi bassi, nascosti nell’ombra e il cuore rivolto ad un giorno lontano: quello della libertà.”
Cinque racconti i cui fili si snodano attraverso i temi fondanti della critica e dell’utopia: protagonista una generazione lontana temporalmente da quella attuale ma non troppo lontana dalle tematiche trattate; attuali e importanti, invece, le riflessioni che possono scaturire da questa lettura, nell’ottica di costruzione di un sistema critico che sappia passare al vaglio il presente in un confronto, aperto e diretto, con passato e futuro. La critica coinvolge in primissima battuta il sistema scolastico ancorato a rigidi programmi ministeriali, alla sistematicità degli insegnamenti, alla logica dei numeri intesa come qualifica all’apprendimento, alla vita, attraverso il voto: un giudizio “sommario” che può pregiudicare o avviare la messa in moto del proprio cammino.
Nella Nevicata e nei Numeri si esaminano, attraverso il prototipo del ragazzo come tanti, questi e altri temi. Il pretesto narrativo che costruisce il dialogo a più voci è la cronaca di un viaggio al sud durante una straordinaria nevicata, viaggio in cui si delinea ulteriormente il carattere di Emanuele: un ragazzo che a cospetto del cosmo si sente piccolissimo, insignificante, solo una particella di quel buio che compone la vera essenza del Tutto. Un ragazzo che non crede in dio, non crede in nulla, ma certe domande se le pone talvolta tenendo bene in mente l’immagine di “The Wall” in cui file di studenti s’incamminano verso un gigantesco tritacarne al ritmo di “We don’t need no education, We don’t need no thought control” dei Pink Floyd.
Una critica al “maestro imposto” che rivendica, in un estremismo esasperato e manicheo, il diritto a essere ignoranti, il diritto a un’educazione emancipata dalle imposizioni in cui è lo studente stesso a scegliere di imparare entro un sistema libero così strutturato: niente esami, niente classi, niente compiti, niente voti e nessun programma ministeriale. Solo un maestro e un allievo, in assoluta parità, che insegnano l’uno all’altro, a turno, ciò che sanno.
Attraverso Emanuele, Massimo Acciai delinea la sua utopia, che non si rifà ad un modello culturale arcaico, come quello, per esempio, della Grecia antica basato sul rapporto diretto tra maestro-discepolo, anche se si possono apprezzare alcune analogie; ad esempio questo approccio non prevedeva di dover preparare i giovani per un mestiere ed essendo, soprattutto, di tipo morale non aveva bisogno di strutture scolastiche, ma si poteva sviluppare all’interno di un quotidiano tipo di vita (nel caso della Grecia: sportivo, mondano, guerriero ecc..).
Non si rifà neppure, o solo in parte, al modello di Don Milani, ancora troppo avanti con i tempi, sebbene siano passati quattro decenni dalla sua morte, modello in cui studenti e maestri possono sì, imparare vicendevolmente, ma senza quell’anelito alla libertà che lo studente sembra ricercare con fermezza: lo stesso prete di Barbiana, infatti, “imponeva” i suoi ritmi e le sue materie, la sua autorità, ai bambini e ragazzi che istruiva nel suo paesello sperduto del Mugello.
L’utopia di Emanuele, tuttavia, non traspare mai con troppa convinzione, perché egli stesso durante il dibattito a tavola su questo medesimo tema, si trattiene dal parlare e dall’enunciare le sue idee per una sorta di rassegnazione allo stato delle cose o per incapacità di opporsi a un cambiamento a cui le coscienze non sono ancora evidentemente preparate.
Non è neppure paragonabile a quella che Silvano Agosti delinea in “Lettere dalla Kirghisia”, mondo onirico in cui prende vita una società basata sull’amore e la cooperazione tra gli esseri umani, nell’assoluto rifiuto di qualunque tipo di conflitto. Una società entro la quale gli insegnanti sono persone comuni e la scuola è un luogo a cielo aperto, dove gli strumenti sono a disposizione di tutti e i bambini stessi diventano insegnanti di adulti, di anziani, in uno scambio consapevole e reciproco di sapere e di risorse. Cosa, questa, che sta già avvenendo per quanto riguarda, ad esempio, i nativi digitali i quali, interagendo con le generazioni precedenti alla loro, sono a tutti gli effetti dei moderni “insegnanti” (quando hanno pazienza); viceversa gli stessi cercano un dialogo con i genitori e con le persone al di fuori della scuola che è pressoché inesistente. Alla base dell’ utopia agostiniana sta l’amore, tema toccato solo di sfuggita da Emanuele, ancora acerbo nella sua consapevolezza di vita, ancorata rigidamente a degli ideali mai davvero messi in atto, ideali che si azzarda appena a delineare nel pensiero, nelle letture da autodidatta, ma che non gli consentono di opporsi al sistema vigente. Egli non è infatti un combattente, è un ragazzo come tanti i cui desideri si spengono entro le bollicine di un bicchiere: “Sogno di scrivere d’estate su una veranda, accanto ad una bottiglia di Coca Cola e la quiete della sera. – Precisò – Magari un buon romanzo di fantascienza.”
Emanuele tratteggia l’utopia di un mondo “perfetto”, e quindi assolutamente inattuabile, in cui vigono quattro regole che egli appunta sul suo taccuino:
1. Nessuno muore contro la sua volontà e la morte, quando c’è, è reversibile.
2. Ognuno si innamora soltanto di chi lo ricambia o non si innamora affatto.
3. Nessuno si ammala contro la sua volontà.
4. Ognuno è felice con ciò che possiede.
Il ragazzo come tanti, tuttavia, non sembra essere felice con ciò che possiede, non ha mai fatto qualcosa che non veda l’ora di riprendere, odia la scuola ma non ha mai provato amore neanche per i successivi lavori che ha trovato, tutti inesorabilmente precari, con cui è impossibile fare progetti o costruire un futuro. I suoi amici, che si trovano in situazioni più o meno drammatiche rispetto alla sua, sembrano comunque riuscire ad andare avanti, al contrario di lui che si scopre a vivere in un limbo in cui i mesi e gli anni passano inesorabili… Una vita da domenica pomeriggio.
Una critica alla scuola che diventa critica alla società, un confronto inscindibile che ci catapulta dagli anni novanta fino a noi. Cosa è cambiato? Come è cambiata la vita del ragazzo come tanti nel nuovo millennio?
Esiste ancora questo grande anelito alla libertà che Emanuele, che io, che tutti noi studenti della passata generazione possedevamo? Una risposta a questa necessità sembra esserci stata data dalle scuole steineriane (le quali, tuttavia, non sembrano discostarsi molto dal metodo Montessori) che educano alla libertà e all’ educazione permanente, la quale non finisce entro le pareti della scuola ma continua per tutta la vita, scoprendo il piacere di imparare. In questa ottica il bambino non è considerato un substrato passivo sul quale imprimere nozioni, ma un essere ricco di potenziali latenti (talora di grande valore per l’umanità) da risvegliare attraverso un metodo privo di condizionamenti e distorsioni, quei condizionamenti contro i quali Emanuele si scaglia con determinazione.
Come si può facilmente intuire i temi importanti sollevati da questi racconti sono quelli della libertà e dell’uguaglianza, la necessità di ideare e realizzare un sistema di valori che non intrappoli le giovani menti entro le mura di un cortile; reale o metaforico, questo ha poca importanza, si tratta comunque di un recinto che impedisce la scoperta del mondo e la propria crescita. Eppure il protagonista dell’ultimo racconto “Il cortile” sa che la libertà è una conquista per cui lottare giornalmente ma ci lascia anche intendere che, probabilmente, è una conquista illusoria, una sorta di caleidoscopio attraverso cui osservare il mondo:
“Il mio pensiero scavalca il muro e percorre il mondo esterno. Penso a quando sarò anch’io dall’altra parte e mi troverò magari a passare, per caso, davanti a questo muro – ma sull’altro lato – e davanti al portone pesante di questo edificio. Forse allora penserò a questi anni con un sorriso, in un’illusoria sensazione di libertà.“
Una citazione interessante apre questo racconto: scritta da un anonimo pseudo latino in una lingua non-lingua in aperta polemica alla visione delle lingue antiche come artificiali, non vive. Il significato è un non senso che rende la citazione stessa lettera morta e che sottintende una ulteriore critica al vuoto culturale del sapere-non sapere, alle frasi citate a memoria senza conoscerne le origini e il significato, e quindi, per estensione, all’approssimazione culturale che si sta appropriando di spazi sempre più ampi, di fette sempre più grandi di popolazione, anche all’interno di una fascia sociale ad elevata scolarizzazione.
Protagonista dell’ultimo racconto “Il complotto” è, invece, l’idioma dell’Impero Mondiale, metafora di un imperialismo moderno che fa dell’unificazione linguistica uno strumento di potere. Facile comprendere di quale lingua si stia parlando. Una rivoluzione interna alla popolazione mondiale porterà ad un curioso risultato… Un’utopia anche questa, perché, a ben guardare, la cooperazione tra popoli, alla luce della moderna storia, pare assurda, anzi attualmente si sta accentuando sempre più una divisione, una scissione interna alla popolazione anche entro porzioni ristrette di territorio.
I vari racconti attraversano il mondo della scuola in anni molto lontani da ora, e pare difficile poter attuare un confronto per chi ormai è fuori da quel “cortile”, eppure, tornare al proprio compagno di scuola, con cui si dividevano libri e paure, fa riemergere alla memoria lo spazio condiviso del banco e le relazioni, instaurate e/o perse, di quei lontani anni.
Massimo Acciai in “Compagno di scuola” ci racconta di Lucio, un Franti da libro Cuore, il cattivo ma non troppo, alla sua seconda bocciatura che si fa scivolare la scuola addosso attraverso continue assenze autogiustificate da un insospettato senso di humor: “Mancanza di voglia”, “Colpo di stato”, “Soggiorno ad Auschwitz”, “Vincita alla roulette”, “Che te frega” e così via. Lucio rappresenta la contestazione passiva di un sistema non accettato, ma anche la memoria di quelle amicizie condivise, a un tratto scomparse dalla scuola e dalla vita senza lasciare traccia.
Resta, invece, traccia indelebile in Emanuele il ricordo dell’esame di maturità che si palesa vivido davanti alla commissione esaminatrice del concorso per insegnante d’italiano, come nel colonnello Aureliano Buendía, in Cent’anni di solitudine riaffiora, di fronte al plotone di esecuzione, il pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Una metafora lampante questa citazione implicita del romanziere colombiano Gabriel Garcia Màrquez: ci si ritrova a giudizio e si viene valutati continuamente a scuola come nella vita.
Non siamo a Macondo, né in una città immaginaria, siamo a Firenze, ma ci muoviamo comunque all’interno di una solitudine, quella di chi ha scelto una strada sbagliata e non ha avuto il coraggio o la capacità di uscirne; Emanuele comprende una grande verità, ossia che la mente crea delle gabbie e di questo ci si rende conto solo nel momento in cui ne siamo fuori e vediamo la gabbia dall’esterno:
“Maggio intanto incedeva e s’intravedeva ormai la fine della scuola. La Fine. Non la semplice e dolce fine di un anno scolastico, ma la Fine di un intero periodo della vita. La Libertà.”
Alla fine dell’anno scolastico e degli esami di maturità Emanuele alle 14.15 di un infuocato primo pomeriggio, andò a vedere quale numero gli avevano assegnato, e non ci è dato sapere il voto, il numero assegnatogli, perché questo, sembra volerci suggerire l’autore, non è importante. Può un numero, qualunque esso sia, valere cinque anni della propria libertà, cinque anni di estrema solitudine vissuti senza convinzione nell’accettazione passiva di regole e di nozioni che non si è riusciti a fare proprie?
Eppure Isaac Asimov, nel lontano 1951, scrivendo The Fun They Had aveva ipotizzato la scuola del 2155, molto vicina a quella verso la quale ci stiamo muovendo attualmente (pensiamo all’e-learning e alle università on line), in cui i bambini sono istruiti da un insegnante elettronico, non hanno scuole e neppure insegnanti umani. Una moderna solitudine, quella ipotizzata da Asimov, che si palesa nell’esclamazione finale di un nostalgico pensiero per la scuola del XX secolo: Chissà come si divertivano!
Valentina Meloni
Castiglione del Lago, 10 marzo 2015
vi aspetto alla presentazione a Firenze!