La camicia di Sardanapalo

La camicia di Sardanapalo copertina

“Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento
di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia;
cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza.”
(Jean Nicolas Arthur Rimbaud da “Lettere del Veggente”)

La camicia di Sardanapalo è la raccolta di racconti di Iuri Lombardi, scrittore fiorentino, classe 1979, membro della redazione di YAWP, giornale di letterature e filosofie presso cui si occupa di critica letteraria e gestisce il progetto dei Quaderni Barbarici in collaborazione con Patria Letteratura. Edita da Talos Edizioni nel novembre 2013 questa raccolta, come racconta lo stesso autore in un nostro incontro, ha visto la luce dopo due anni di lavoro. Un lavoro importante, impegnativo che ha portato anche alla pubblicazione di “Iuri dei miracoli”, figlio di un figlio in attesa, nato dalla stesura di questa narrazione dal sapore autobiografico. La camicia di Sardanapalo prende il titolo da uno dei quattordici racconti presenti, il terzo in ordine di lettura, uno dei racconti portanti della raccolta e, credo, anche il più rappresentativo dello stile poetico e della filosofia di vita dell’autore.

“Appena vista, tra le tante appese, ben stirate, dai colletti inamidati, non ho potuto fare a meno che sfilarla dalla gruccia e indossarla in gran fretta. Nonostante siano passati diversi anni, la stoffa pare abbia mantenuto lo stesso odore di quella notte; l’essenza del suo sudore, di quell’escursione verso il basso, oltre i poggi, verso la valle.”[1]

La camicia è qualcosa che avvolge, una sorta di seconda pelle che segna la scoperta della natura del protagonista-narratore-autore, il quale, attraverso un comunissimo flashback, che si innesca al momento del ritrovamento di questo vecchio indumento nell’armadio, ripercorre la sua primissima iniziazione all’amore. Il profumo ancora intatto di quei ricordi si scioglie nel tratteggio di un’adolescenza matura in cui emergono sensazioni profonde del vivere in pienezza e innocenza: l’amicizia, l’amore, la spensieratezza, la sessualità, accompagnate dalle immagini di una “terra senza colpa e senza speranza”.[2] (il “Texas italiano”, la Basilicata tanto cara all’autore) profanata dallo sfruttamento umano.

La terra per chilometri e chilometri, per valli e montagne, veniva sventrata da profondi fossati ricoperti da una colata di cemento armato. Era irriconoscibile. Non era la nostra terra di madonne con le loro apparizioni di santi lodati, di mendicanti e braccianti, di scemi che, come noi, sfidavano il giorno e la notte per il piacere di vagabondare da un paese all’altro.[…] Era un’altra terra, non la nostra. Non più il sud del sud dei santi. [3]

Protagonisti sono la verginità perduta della terra, “questa terra che ha il nostro sangue […] il sangue caldo delle vene, il circolo misterioso della vita” [4], la verginità appena persa dei corpi, “corpi che si svegliarono ansimanti, un poco alla volta, nel suo pene eretto ma sottile, ancora in parte puerile che mi cercava per entrare in me”[5] , ma soprattutto la verginità dell’innocenza che sta per perdersi, di quel “nostro essere minuti e ancora bambini, minacciati dall’età adulta in procinto di esplodere come un grumo di sangue nello stomaco”.[6]

Sardanapalo, chi era costui? E soprattutto cosa incarna? Non è un nome scelto a caso per fare colpo, e del resto nulla è lasciato al caso in queste pagine vibranti di vita: Sardanapalo, personaggio di biblica memoria, non fu solo il re degli Assiri. La sua è una figura storico-mitologica che incarna “l’effeminato” dai facili costumi, dalla condotta di vita scandalosa, dissoluta, dedita a piaceri di ogni tipo; del resto lo cita pure Dante nella Divina con quest’accezione edonistica “Non v’era giunto ancor Sardanapalo/ A mostrar ciò che ’n camera si puote “[7]. Sardanapalo, oltre a essere uno dei personaggi di questa raccolta, è prima di tutto un alter-ego dell’autore che incarna una visione della vita in cui ci si deve immergere, perché la vita, la vecchiezza esige una completa autentica rovina sì, ma una rovina dettata dall’amore per la vita stessa.

Amore per la storia, amore per il marginale, amore per ogni cosa che della vita fa parte; e infatti qui si narrano non solo accadimenti autobiografici ma storie di personaggi reali che, probabilmente, l’autore ha incrociato sulla propria strada nell’arco degli ultimi vent’anni, dalla prima adolescenza a oggi. Personaggi, dai tratti opportunamente romanzati, che vivono e non si accontentano di esistere, personalità nelle quali si rivela la grande capacità dell’autore di interpretare la realtà che s’inserisce nel panorama del quotidiano italico.

È  questa una narrazione in cui “l’arte vien meno, qui respirano la terra e il fato”[8] parafrasando e completando la citazione iniziale futurista di Boris Pasternak. Narrazione che fa uso di un linguaggio poetico, ma allo stesso tempo semplice, spontaneo a tratti colloquiale, sempre forte, veritiero, inframmezzato da dialoghi e da continui richiami biblici. Tutta la raccolta è intrisa di questo motivo spiritual-terreno espresso da personaggi dalla natura duale in lotta continua tra sacro e profano. È  uno dei tratti stilistici più personali di Iuri Lombardi, un vero stilema di narrazione, in cui la trasposizione di personaggi biblici nell’era moderna, di figure spirituali e mistiche che incarnano i nuovi eroi decadenti dell’attuale società, serve a conferire, con grande naturalezza, una metafora esistenziale al carattere del personaggio. Qualcuno forse potrà considerarla blasfemia… Ebbene io trovo questa blasfemia una “rivoluzione” letteraria moderna e “dentro al presente” perché delinea in modo potente e originalissimo la natura contradditoria dell’uomo moderno in perenne lotta tra le sue pulsioni terrene e l’incessante ricerca d’elevazione spirituale, che sconfina spesso nell’eccesso, nel sacrificale, nel profetico, nel paradossale, nell’estremismo e, non ultimo,  nel continuo conflitto tra esistere e vivere.

Conflitto che è subito proposto nel primo racconto attraverso la voce di “Gigi l’evangelizzatore”. Gigi o per meglio dire Luigi Vivarelli, il quale “un giorno mollò moglie e figlioli, il lavoro di ferroviere per evangelizzare il mondo”.[9] e che ha indossato questa seconda pelle di resurrezione incarnatasi in Gigi “questo sconosciuto a cui ho dovuto dare amicizia presto”.[10]

Una reinterpretazione, questa di Gigi, del Cristo moderno, morto e risorto senza essere messo in croce, a testimonianza che la resurrezione è un fatto quotidiano, non circoscritto al concetto di Pasqua cristiana, ma più universale, metafisico, che attiene all’uomo in quanto tale, in quanto essere che deve imparare a vivere.

“Credo che l’essere sia presente solo ad intermittenze [ …]. Sì perché bisogna imparare a distinguere, la vita dall’esistenza, mio caro. Esistere non significa vivere, assolutamente. Esistere presuppone esserci biologicamente, fisicamente, ma se ci pensi bene, è un gesto meccanico; non ci vuole molto a esistere. […]Solo essendo consapevoli dell’essere coscienti, solo nell’abbandonarsi alla coscienza, si vive, ci si rende conto di appartenere ad un progetto più ampio”[11]

Esordisce così Gigi l’evangelizzatore, umano prodotto o se vogliamo “sottoprodotto” dell’umana concezione religiosa dello spirituale, concezione in cui la formula istituzionale ha oscurato il significato della ricerca mistica che ha portato alla nascita di una filosofia  e di un apparato religioso corrotto e agonizzante. Sì perché quello di Gigi è “un vivere sottaciuto, messo al bando, che lui disperatamente cerca di svelare, disinnescare come fosse una bomba sotto il sedere di un prelato. E poi, certo, i prelati hanno le loro colpe, e in questa storia, per non dire nella vita di Gigi, c’entrano molto, pur non volendo.”[12]

Una velata (oppure no?) critica all’attuale e secolare istituzione religiosa (cui dobbiamo una genealogia mistico-profana) che -nel racconto intitolato “Roma”– monta in accusa nelle parole di Don Giuseppe, prete del Vaticano, “sempre rispettoso dei dogmi della Chiesa cattolica, dei riti, delle preghiere e soprattutto della gerarchia vaticana, lontano anni luce da problemi di cuore o sentimentalismi vari, (che) non di meno covava in seno problemi e dubbi.”[13]      

Un Don Giuseppe evidentemente messo in scacco (solo per un breve rigurgito di vero spirito cristiano) più dalla propria coscienza che dal moderno predicatore, tale Giovanni -guarda caso- venuto ad annunciare l’Apocalisse per quelle istituzioni vaticane corrotte e corruttrici.

“Io non potrei tradire il vangelo cristiano, la parola e l’insegnamento del Cristo. Però sento d’averlo fatto abbracciando la fede nel Vaticano, nella Chiesa. […]Temo che un giorno nostro Signore mi giudicherà negativamente, forse condannandomi per aver partecipato ad un gioco di soprusi e di potere avanzato tramite la sua immagine e dottrina.[…] Ma è un timore che mi fa tremare il ventre e i polsi per una questione morale. Morale che io ho tradito per aver accettato determinati ruoli di potere. In fondo […] la Chiesa è da duemila anni che si regge sulla menzogna, sul falso storico e concettuale.”[14]

Di predicatore in predicatore Iuri Lombardi tratteggia variegati personaggi, surreali e simil spirituali come “Irui delle bretelle” o veri e propri ciarlatani come “Sallustio Agostino” che dello spirituale fanno business lucrando sulla creduloneria della nuova borghesia povera, priva di religiosità spirituale e  di ideali oltre che di soldi; e su persone deboli, sempre più bisognose di quelle false certezze cui una finta spiritualità può facilmente sopperire. “Mi sono improvvisato cartomante, sensitivo, un ciarlatano di parole e di profezie, irrealizzabili, che mi consentono di racimolare quattro palanche, di avere sempre la fila davanti casa …”.

 Ciarlatano, si definisce così lui stesso, Sallustio (che nome affascinante!), per cui “Il Karma non esiste, è solo un trucco per accaparrarsi clienti che da lui vengono per un vago consulto”.[15]. E poiché per egli il Karma non esiste può permettersi di considerare la morte un’ipotesi, più che una certezza, una messa in scena, più che un cammino di vita verso cui avviarsi con consapevolezza: ”Sto architettando una mia ipotesi di morte in merito e vedremo se questa sarà la cosa giusta. D’altronde la morte fa sempre colpo.”[16] Eppure è sempre lui a ricordarci due pagine dopo che “Morire comporta una certa responsabilità”[17] responsabilità che, però, egli non ha alcuna intenzione di accollarsi preferendo considerarla un’ipotesi da asservire ai suoi bisogni primari: la villetta, la spider, e qualche altro piccolo lusso.

Al contrario “Irui delle bretelle” è un ritratto di un personaggio certamente fantastico e “fuori dai canoni”, ma sempre figlio di questi tempi, tempi in cui si è costantemente in cerca di una propria identità e spesso, per restare in piedi, ci si asserve alle mode, si passa dall’essere personaggi materiali, magari di successo, al mostrarsi persone (simil) spirituali, illuminate, redente e immancabilmente poco credibili(quanti ne fioriscono ogni giorno?). Irui è tratteggiato egregiamente nelle ultime cinque righe del racconto:

“quell’uomo sul podio, pettinato dal libeccio, dai sussurri marini. In piedi com’è, vestito di bianco, con i sandali, le bretelle slacciate, i pensieri che si sciolgono in un torrente di marzo, la coda canuta e ben intrecciata come una torcia che si è sciolta colante di cera bianca.”[18]

E sul bivio tra il vivere e l’esistere viaggiano i personaggi di Iuri Lombardi, trasfigurazioni tra il mistico e il blasfemo del suo io più recondito, combattuto tra “l’essere poeta”, che alla stregua di Rimbaud[19] cerca di vivere sulla propria pelle il midollo dell’esistenza e “l’essere filosofo” che segue la propria inclinazione spaziale dello “stare a margine”, di vivere il rimanente e, di esplicitare l’invisibile -e allo stesso tempo oscena- presenza dell’insignificante. Un insignificante che impera come significante e quindi segno, grafema di una realtà contenente il nulla dell’attuale società. Un nulla poetico, un vuoto-pieno che contiene, un nulla ovviamente creativo, ma non così percepito o percepibile dai più.

È  in ciò che resta, infatti, per l’autore, nel non detto, nel rifiuto, nel rimasuglio del filo che unisce gli eventi, nello spazio minimo, nelle ombre, sotto i ponti, dietro i muri: è qui che vive “il corpo” della società. È  qui che è nascosta la chiave di comprensione per leggere il cambiamento, la rivoluzione sociale, il nesso che accosta l’incomprensibile alla causa. L’autore non passa semplicemente in rassegna i fatti o la vita marginale dei personaggi, ma indaga le cause esistenziali della loro evoluzione, attraverso gli stessi personaggi, s’interroga su un modus vivendi che nei secoli ha stigmatizzato  “il giusto” e “l’ingiusto”, ha definito i canoni del vivere relegandoli in confezionamenti come prodotti consumistici. Elemento distintivo della narrazione è quel voler “squarciare il velo”, la volontà di rappresentare, con formidabile regia, diversi spaccati di realtà, altrimenti incomprensibili o semplicemente ignorati per disattenzione, per “non amore”, per grave mancanza e inottemperanza di giudizio. Leggere questi racconti significa poter aprire gli occhi sul marginale; non sono solo narrazioni ma veri e propri appunti di storia, perché la storia è fatta non soltanto di grandi eventi, di registrazioni ufficiali, ma anche e soprattutto di particolari, di eventi minimi, quelli che sembrano non avere importanza e che invece riescono con immediatezza a far percepire una visione d’insieme della società e delle cose del mondo.

I personaggi di Iuri Lombardi sono persone quanto mai vive, inserite all’interno di una narrazione che si scioglie fluidamente tra descrizioni di paesaggi poetici, ambientazioni bohémien e intrecci vagamenti felliniani in cui si alternano maschere, saltimbanchi, matti, delinquenti, mistici, santoni e lestofanti. L’autore entra nei suoi personaggi come una maschera teatrale, un trasformista che cambia d’abito a ogni ruolo, in un palcoscenico fatto di cose comuni “Chi voleva parlare con lui, lo doveva cercare in casa, nel salone che non era altro che il suo palcoscenico.”[20] E con attori impersonati da gente comune con tanto di pubblico immaginario “con la fronte imperlata di sudore e la mente umida di pensieri, vagheggiava, pronto ad accogliere un grasso applauso da quel pubblico immaginario che si vedeva davanti, intento ad osservare lo spettacolo.”

Questa impostazione della narrazione di tipo teatrale che caratterizza i personaggi e ne tratteggia il carattere in maniera distintiva attraverso lunghi monologhi e profondi e sincopati squarci psicologici (nella prefazione), dà alla lettura una “sostanza” reale, dinamica, di grande vivacità e spessore comunicativo. Una narrazione di tipo teatrale di derivazione beniana però, dove il linguaggio “scombinato o impeccabile” dei pazzi,[21] è preferito al  linguaggio istituzionale; dove viene rappresentato l’o-sceno (nel significato di “fuori dalla scena”), l’altrove, il non essere dove si è, e quindi il superamento spazio-temporale in cui si perdono l’identità, lo scopo per cui si agisce, il senso e la direzione. Un’attività passiva che è ben rappresentata da Flavio De Pasquale protagonista di “Reminiscenze latenti” il quale in un ribaltamento di consuetudini finisce in terapia psicanalitica (al posto delle vittime che qui compaiono solo come figure passive) per comprendere un malessere derivato da una vita corrotta dall’incesto, dall’abuso di potere, dalla perversione, rappresentato come  “reminiscenze  che mi vedono innamorato di me stesso al punto di farmi i figli, le mie dipendenti, in quanto riflesso di ciò che sono”.[22]

Un o-sceno che si riscontra nel personaggio di Vito La Fame la cui carta d’identità è un fac-simile di un’identità oscena che alla voce professione dice: Pistolero, boss del proprio isolato[23], personaggio che recita un ruolo inventato per sopravvivere e potersi credere ancora utile dopo l’infortunio che lo ha costretto ad andare in pensione giovane; la cui vita passata è solo un’altra storia di cui non vuole più sentir parlare.

O-sceno che vibra ancora di questa non –presenza nei tratti di Tommy, una vittima che si fa carnefice e infligge al protagonista una dolorosa lezione sull’amore. Che ci porta a conoscere Bianca, una signora come tante, che passa la maggior parte del tempo dentro un supermarket per godersi un paradiso preconfezionato[24].

“Per passare le giornate-racconta Bianca– con mio marito andiamo al supermarket, d’altronde adesso che è estate là c’è l’aria condizionata e si respira benissimo. Al supermarket ci si va tutto il resto dell’anno a contemplare le nostre vuote giornate[…] direi che è quasi un lavoro: al supermarket io e Graziano, mio marito, montiamo di turno appena aprono le porte, stando attenti alla ressa che già c’è di primo mattino. Parola di Bianca.”

Grande spaccato della società questa vita preconfezionata e consumistica in cui non soltanto i sentimenti, il vissuto, le emozioni, gli interessi, sono considerati merce ma l’uomo stesso. Vita che  va vissuta anch’essa dentro uno spazio commerciale, dove è bandita qualsiasi discussione sulla politica[25] e quindi su tutto ciò che attiene alla comunità, in quanto il supermarket non è uno spazio sociale, al contrario di quanto si creda, ma un non-luogo in cui si danno appuntamento tante singolarità, tante solitudini, senza mai davvero incontrarsi, come tante colombe in un nido ben impagliato.[26]

Un o-sceno che si manifesta in una non-vita, nell’impossibilità di crearsi un futuro attraverso il lavoro e quindi l’impossibilità di crearsi una famiglia, dei figli propri, in due parole: l’alienazione sociale. E, di contro, l’assurdità di donare il proprio seme o come lo definisce l’autore – un concentrato di vita pagato bene (e quindi propri futuribili figli) per racimolare qualche extra, porta il protagonista di “Giorni difficili” a interrogarsi sul significato di un’attività passiva che ha sì scelto, ma che non gli piace e lo spersonalizza: “Quanta vita donata?”, si chiedeva, “E chi sarà la donna che mi riceverà? Come si chiamerà? Quanti anni avrà?”[27]

A fianco a questi temi che presuppongono il superamento spazio-temporale, coesiste la tematica del confine spaziale che dà la misura dell’ordinamento sociale. “L’argine e il fiume” una grande metafora di vita. Un contendersi di spazi tra gli uomini di diverse estrazioni sociali, di diversa natura. L’argine che rappresenta la convenzione sociale, gli schemi, i contorni, i muri, i limiti e quindi la separazione. Il fiume che indica invece lo scorrere vitale che non può essere fermato, solo arginato (non sempre), la libertà, l’irruenza del vivere e del sopravvivere e anche la naturalezza, il fluire delle persone semplici, viste con timore perché non richiudibili entro gli schemi preordinati dalla società. Una metafora che è doppia metafora, un racconto nel racconto. Perché l’argine rappresenta anche l’imposizione paterna e il fiume la fluidità del vivere di una coscienza ancora priva di imbavagliamenti, la coscienza di figlio, un figlio che violando quegli argini paterni instaura un’amicizia con Besnik, ragazzo rom, che vive con la sua comunità di zingari accampato sulle sponde del fiume. Un fiume che è arginato da argini costruiti dal padre e che costringe gli zingari ad andare altrove interrompendo così il corso di un’amicizia fuori dalle convenzioni sociali, fuori dagli argini, fuori dalla comprensione degli altri e quindi, forse, un’amicizia davvero mai esistita sul palcoscenico del mondo, ma solo nelle coscienze di due ragazzi consapevoli d’esistere.

Besnik, nome che pare incarnare la figura a margine e, infatti, ricompare in altro ruolo in “Amplessi hollywoodiani”; no, non è lo stesso di prima ma in fondo potrebbe essere anche lui, uno dei tanti operai dell’est la cui morte (morte bianca) non interessa nessuno ed è solo un incidente, un grosso grattacapo per usare le parole del suo datore di lavoro, costruttore senza mezze misure dai pochi scrupoli e molti scheletri nell’armadio.

Temi forti quelli di questa raccolta, trattati con profondità di intenti, non per mero fine voyeuristico a uso e consumo di lettori attratti dal macabro o dal perverso (tengo a fare questa precisazione perché il fiorire di una “letteratura” spicciola di dubbio gusto e di certezze d’intenti per nulla filantropici mi fa interrogare molto sul fine della letteratura contemporanea), ma per un’attenzione continua dell’autore a ciò che lo circonda, per il suo interrogarsi, per il suo cercare risposte, per il suo volerci consegnare una visione di quella che i sociologi e la filosofia definiscono post-postmodernità [28] senza sotterfugi, senza scappatoie, senza censure e con una forte presenza di quell’insignificante di cui parlavo prima, che delinea i contorni – ma soprattutto le sfumature –  dell’oggi, del vivere il presente, con pienezza e grande capacità intuitiva, critica e descrittiva.

(Valentina Meloni)


Iuri Lombardi, Firenze 1979, poeta, scrittore, saggista, drammaturgo. Ha promosso concorsi letterari a livello nazionale, ha diretto una casa editrice, dopo un lungo laboratorio nei giornali e nei mezzi di comunicazione come opinionista e pubblicitario. Ha pubblicato i romanzi: Briganti e saltimbanchi, Contando i nostri passi, La sensualità dell’erba, Il cristo disubbidiente, Mezzogiorno di Luna. Le raccolte di racconti: Il grande bluff, La camicia di SardanapaloIuri dei miracoli, I racconti. In Poesia: La Somma dei giorni, Black out, Il condominio impossibile, Lo zoo di Gioele, Il sarto di San Valentino. Per la saggistica: L’apostolo dell’eresia. Per il teatro: La Spogliazione, Soqquadro. Vive a Firenze.

Note


[1] Citazione da pag. 29
[2] Citazione da pag.30
[3] Citazione da pag.32-33
[4] Citazione da pag.34
[5] Citazione da pag.34
[6] Citazione di pag.29-30
[7] Dante Paradiso · Canto XV-108
[8] “Oh, s’io avessi allora presagito” dalla lirica “In morte di Majakovskij” di Borís Pasternàk, traduzione di Angelo Maria Ripellino, Torino 1959, Einaudi.
[9] Citazione da Pag.16
[10] Citazione da Pag.17
[11]  Citazione da Pag. 15
[12]  Citazione da Pag.17
[13] Citazione da pag. 45
[14] Citazione da pag.48-49
[15] Citazione da pag.27
[16] Citazione da pa.25
[17] Citazione da pag.27
[18] Citazione da pag.80
[19] Arthur Rimbaud chiarisce così il suo lavorare per diventare poeta: «si tratta di arrivare all'ignoto attraverso la sregolatezza di tutti i sensi».
[20]Citazione da  pag.98-99
[21] da Vita di Carmelo Bene, pag. 102-111
[22] Citazione da pag.41
[23] Citazione da pag.62
[24] Citazione da pag.110
[25] Citazione da pag.109
[26] Citazione da pag.108
[27] Citazione da pag.85
[28] Citazione dalla Prefazione di L. Spurio
Pubblicità

2 pensieri su “La camicia di Sardanapalo

    • Ti ringrazio carissimo Lorenzo, sono molto lieta che tu l’abbia letta e apprezzata! Un caro saluto e un abbraccio anche a te in attesa di rivederci presto, magari per la presentazione di un tuo prossimo libro!
      Valentina

      "Mi piace"

Rispondi

Effettua il login con uno di questi metodi per inviare il tuo commento:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...