L’anima nuda
“L’amore è sutura,
non benda. Non scudo
sutura.”
(Marina Cvetaeva)
La perdita è un luogo di memorie e di ricostruzioni, è anche il luogo della poesia perché sintesi del pensiero è il poetare. Il linguaggio si affina per sottrazione, i sentimenti anche… La poesia di Giuseppe Guidolin nelle Intermittenze dei petali nasce da una perdita importante, quella della figura paterna. E non è mero atto consolatorio, che una sottrazione così grave è certamente inconsolabile: è piuttosto intimo ripiego del sentimento sulle parole, su quello strumento linguistico che scava a fondo nella vita, nelle memorie, nel fioco palesarsi delle sensazioni d’anima.
Non è mai semplice destrutturare una perdita, renderla parte di un percorso di crescita, anche di scrittura: sezionarla, analizzarla, assumersene il carico con accettazione e sottrarre al linguaggio poetico quel dolore che offuscherebbe la limpidezza del verso è faticoso. Il vuoto pesa. È un lavoro di schiarimento e di scavo interiore di grande impatto emotivo. Iosif Brodskij nel suo lucido percorso poetico che dichiara la poesia un imperativo biologico dice “Non credo che il dolore sia necessario alla poesia. Anzi, spesso ottunde la sensibilità del poeta. Può uccidere.”
È così che la poesia della perdita nasce da una sottrazione importante: quella del dolore. Ci si scopre, si denuda l’anima e si offre questa nudità al mondo. La scrittura diviene un corpo sacro che, come un’ostia, viene offerto all’altro. Non ci si annienta nelle parole ma si vive. La poesia è un dono in cui la vita riverbera con le sue lucenti ombre, in cui c’è spazio per la vita e per la morte, che della vita ne è prosecuzione.
“Nel dono di me stesso/profuma la vita” scrive Giuseppe in un bellissimo verso che sembra tratto da un’antica poesia sufi, perché la eco dei propri versi è un consumarsi, un appassire di sé stessi: quando un fiore si spoglia dei propri petali il suo profumo è ancora più intenso. Così è anche la vita, più intensa appare a chi osserva quando ci sta per lasciare. Così è scrivere poesia, una piccola morte in cui è necessario lasciar perire il significato codificato a favore di un nuovo contenuto, di una nuova immagine luminosa, a volte soltanto intuita, in cui traslare il significante.
Per Giuseppe le parole sono sogni in embrione/ tra le pareti/ spogliate della mente/su cui posare un cielo/improvvisato di sentieri/. Sentieri su cui camminare con scarpe leggere, quelle della perdita, del proprio intimo percorso e delle parti di noi che sappiamo dover lasciare andare. In esergo a una sezione della silloge una citazione del poeta contemporaneo Hugo Mujica traccia una via luminosa all’interpretazione dei versi che seguiranno: “ogni nascere chiede nudità/come la chiede l’amore/come la regala la morte”.
Una nudità che si palesa nel verso filiforme, spogliato di ridondanze, di orpelli, di eccesso, dei significati precostituiti, perfino ridotto all’osso nella forma di tanka, haiku e baishu di ispirazione giapponese. Nudità che si rivela nelle profondità indagate, in un poetare ermetico, concentrato ed essenziale in cui l’anima si concede come per “illuminazioni liriche” attraverso un fiorire affiancato di analogie in cui la complessità dei versi tende, a volte, a sfuggire alla comprensione, alla codifica.
Questi lampi di lirismo sono appunto intermittenti, non hanno un proprio climax che ci permetta di ricostruirne la genesi. È una caratteristica indagata, nella premessa autografa, dall’autore stesso che definisce i propri versi come “un momentaneo schiudersi di petali sulla corolla di un fiore”. È così che le ‘intermittenze dei petali’ divengono rappresentazioni poetiche (e perciò simboliche) delle intermittenti scintille e ‘connessioni’ dell’anima in cui “il verbo dell’anima/ si fa carne/ nella sua terra segreta/ pulsante di sguardi/ in sospensione”.
Lungo questo sentiero tracciato da citazioni e suggestioni evocative il verso si fa numinoso, partecipe di uno svelamento esistenziale che non è mai del tutto percepito come proprio dal poeta, mai del tutto posseduto come certezza che si palesa in verso: “L’occhio lucido è visionario/ sul mare che ci sogna”.
La poesia indaga e va fin sottopelle a scovare “lacrime incistate”, “occhi slabbrati” e un’immagine lontana, quasi trattenuta ma feconda (“e sei già grembo”) di donna “esiliata/ nel guscio del cuore”. Forse la medesima donna che si palesa in “Riflessi”, figura femminile in cui l’autore intende specchiare il proprio volto, la propria identità e quindi anche il proprio sentimento, una donna che resta “miraggio all’infinito/ che mai potrò sfogliare/ ma solo immaginare/ Sognando.” Questa immagine del femminile che rivela un tratto fortemente autobiografico è, però, anche un’idealizzazione dell’amore, come cosa irraggiungibile, lontana dai dettami e dai limiti della vita reale. La donna resta un cosmo di polveri visibile a occhio nudo ma comunque inaccessibile e distante mentre la vita passa come in un sogno e “le mie primavere/ scivolano goccia a goccia”.
L’ermetismo del poetare di Giuseppe si rivela in altri due tratti: il senso della solitudine portato fino alla disperazione, evidente nei versi in chiusa “avrà mai fatto differenza/per qualcuno la mia vita ?/(forse no)” e l’uso delle analogie come “luogo” di isolamento in una nascosta esperienza interiore. La stanza paterna in Daddy room è anche il luogo simbolico della memoria, del “ricordo rappreso” che però ora germoglia e “respira tra i silenzi/ di nuovi passi in cielo”. È la stanza di quel dolore che è stato certamente sottratto alla parola poetica ma anche indagato, scovato con audacia e perseveranza tanto che il poeta ne conosce le maschere: “Il dolore s’inventa/ abiti d’avanzo”, la natura che è “nido di lacrime” e il nascondiglio in cui si accuccia: “l’anima ha un doppio fondo”. Un dolore che, chiuso nel suo scrigno, si rivela nello specchio degli altri senza mai perdere quella composta dignità di “attore non protagonista”: “mia madre/ da un giorno/ ha piegato/ le ali” scrive l’autore dipingendo con tratto impressionista il quotidiano in “2 novembre”.
Gran parte delle poesie presenti in questa raccolta, ma anche nelle precedenti di Guidolin, sono attraversate da un soffuso lirismo mistico che si svela a tratti in immagini fulminee attraverso piccoli fugaci lampi poetici dove “fanno la ronda/in sciami di lucciole”.
I viaggi intrapresi dall’autore sono esperienze di vita trasformate in sintassi che arricchiscono la visione del mondo e i richiami poetici. Ci s’incammina lungo La via dei Canti verso quelle linee immaginarie teorizzate da Bruce Chatwin che disegnano mappe geografiche dei territori e si finisce su altre linee immaginarie nello spazio-tempo dell’anima, una topografia senza confini… Sono esperienze di ascolto, da cui raccogliere tutto il bello che ci viene incontro per illuminare anche il nostro cammino interiore, il poeta lo sa: “dal vino della tua bocca/ ricavo oro e raccolgo/la luce che respiro”. Molte le citazioni e le suggestioni aperte e i richiami alla poesia persiana e asiatica. I versi di Giuseppe si fermano nella città più antica del mondo, camminano lungo la Via della Seta, sognati sognando nel sonno della città Ricca, Samarcanda.
Ed è il sogno che guida le analogie serrate nei versi, fin dalla dedica di apertura che si rivolge al padre. Parola che ricorre con tutte le sue varianti quasi in ogni poesia, come se la vita fosse non cosa reale ma immagine onirica, come se, anche qui, l’anima avesse un doppio fondo stavolta ritagliato nei sogni. Tuttavia si deve considerare questo continuo richiamo al mondo onirico non come fuga dalla realtà ma come ipotesi futuribile alla quale ci si appresta. È semmai, nella sua lucida consapevolezza, il ritorno dell’esistenza che pare sfuggire alla vita stessa, continuamente, quasi fossimo abbagliati da un cammino in cui ciò che appare non è mai ciò che è: “Notte di nessun lampo/dove ogni male/potrà passare inosservato”.
Si ritorna bruscamente alla vita e alla morte, come si ritorna agli incubi che ci perseguitano e cade il velo di Maya, nella consapevolezza affondano le illusioni, non è più possibile chiudere gli occhi: naufraghi nel canale di Sicilia novecento morti “Traboccano in virgole/ d’agonia muta/ fluttuando in brulotti/ a crocicchi di stelle/ come pesci fuor d’acqua” domandando un respiro. È uno svelamento che lascia attoniti, toglie voce e respiro anche ai vivi, il poeta ne registra il sentimento d’impotenza: “E poi/ ci sono giorni in cui/ non esistono risposte”, fa del silenzio il suo maestro di vita: “ne assorbirò i silenzi/ […]/ distillerò i pensieri”, trasportando nella poesia anche ciò che non trova parole per dirsi: “Non si può decifrare/ il silenzio inscritto/in bolle di parole mute/ […]l’anima annaspa […]nell’acqua di un latente/ inesprimibile sentire”.
Poesia che è puro accoglimento, riparo “in nidi di parole arcobaleno”, nella sua perpetua contraddizione slabbro, ferita da cui parla l’anima del mondo e, al contempo, sutura, ricamo in sintassi della medesima ferita. Chiusa che è ricongiungimento, incontro in cui si apre, ancora, la porta del sogno in ritrovato cammino: “E se nel ritrovarti/ riannodassi il senso/ dei miei giorni sgualciti/ a ricucire membra/ di sogni in affido/ accoglierei il suo respiro/ in edere da germinare/ […] ricomponendo voci/ per una sinfonia del mondo/ ove il tempo di un adagio/ si consumi a viverci/ saziati di bellezza”.
Valentina Meloni, Castiglione del Lago, 12 ottobre 2016