Di allegorico miele, Rapsodie Sarde, Ugo Magnanti

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Qui si canta una terra allegorica in cui si mescola mito e creazione. Una terra in cui il miele della poesia affiora lentamente, nella cura minuziosa di celle-parole, disposte in una topografia reale e immaginata, rievocata nei paesaggi dell’isola amatissima, percorsa ancora da antiche reminiscenze pagane e culti d’acqua, di pietra e di parola. Qui si riporta alle labbra “sa vidda ‘e su medde”, il villaggio del miele, luogo del culto, in provincia di Nuoro, dedicato ad Aristeo, dove fu ritrovata una statuina raffigurante la divinità con il corpo ornato da api. Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, lui che aveva insegnato agli uomini ad allevare le api e che, giunto in Sardegna dalla Beozia, fondò l’antica Caralis, l’odierna Cagliari. Qui si canta la Sardegna, con le sue asperità di pietra, con i suoi antichissimi misteri nuragici, con le sue acque bucoliche di fonti chiare e fiumi e laghi nascosti, con il miele della sua bellezza e la fatica di gente operosa che la abita. Ma si canta anche la solitudine del viaggio, le tappe di un antico e nuovo nostos verso il locus amoenus, un mondo immaginario, quello del mito e quello dello stesso aedo che mostra la sua visione metasensibile addentrandosi in una catabasi intima e personale di emanazione sacrale.

Il canto inizia rivolgendosi alla Musa e chiedendo aiuto alla voce di dentro come chi si allontani e canti da solo, come chi sta per cominciare: «Spiegami come si fa con le parole/ il miele, vorrei saperlo prima/ di morire, e fammi capire come/ inizia e poi finisce un viaggio,/ perché le voci affondano eppure/ sembrano lucenti…»
Nel poema si chiede alla Musa di indicare la strada, come chi non sa da dove cominciare; eppure il viaggio comincia dalla nascita, la testa e gli occhi per primi, soltanto dopo i passi, e solo dopo ancora le mani, la scrittura. Prima la parola, il suono, l’udito. Qui la nascita è diventare ciechi, proprio come un aedo non farsi abbagliare da alcuna distrazione esteriore, come chi da una miniera guardi fuori, ma affinare gli occhi dell’anima ed entrare in contatto con le cose, senza neppure la meraviglia del bambino, senza alcuno stupore, ma con la chiarezza asciutta di chi va limando parole, come già viene detto nella prefazione di Leonardo Omar Onida.

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Illustrazione di Stefania Sergi, contenuta nel libro

E la metafora superba che Ugo Magnanti adopera per queste sedici rapsodie sarde, nella seconda che è la chiave di tutte, è quella dell’albero silenzioso che, senza occhi, ma con radici e foglie e rami alti, esso stesso preso nella sua visione, esso stesso “facente parte”, tende il suo essere a captare il passaggio di “ciò che non si vede”: «Apro le palpebre come /le può aprire una pianta,/ e cieche nozze vivono ovunque:/ della festa, vi dico, anch’io/ sono parte, sono l’albero/ incoronato con l’afa d’estate:/ così il silenzio si spoglia di tutto,/ e tutto è come per sentito dire. […] È questo passaggio di ciò/ che non si vede a stringere i frutti/ in un soave pugno, a far parlare/ i rami più alti…»

Come chi ritrovi un grembo: poesia come rivelazione e ricerca di una Terra Madre che provveda a tutto l’essere nella sua triplicità di Essere, Padre, Figlio e di Poeta, Aedo, Rapsodo, giacché Uno è molti a partire da tre. Lo ricorda Ida Travi nel suo saggio sulla lingua materna (L’aspetto orale della Poesia) nel capitolo in cui tratta della benda per gli occhi, ella scrive: «Dal drappo che la scrittura stende sulla coscienza si ricava la benda per gli occhi, dalla benda per gli occhi i panni per le ferite della coscienza. […] Il suo linguaggio non può essere che un enigma o il sintomo di un trauma. Interrogare gli dei, oppure iniziare il viaggio scendendo in sé. Quando ogni voce tace, chi tende la mano verso il libro fa tutte e due le cose.»

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Illustrazione di Stefania Sergi, contenuta nel libro

L’aedo si fa rapsodo (tutto è come per sentito dire) e inizia a cantare la canzone che arriva da un Altrove, una terra increata e preesistente, quella del mito e del disincanto, quella dove si scende abbracciando l’aria. In questi versi, ma in tutte e sedici le rapsodie, che sono introdotte dal cantore (prima voce) in un preludio di poche parole, prose poetiche che assurgono a tópoi di un poema più ampio (seconda voce), emerge sottilmente la tensione fra il dentro e il fuori, con la relativa pro-tensione del dentro verso il fuori e del fuori verso il dentro; un paesaggio interno che va a posarsi sulle cose: «La mia altezza guarda giù/ da un sogno, ma si misura/ con i passi che mi sono tolti:/ sono l’albero nel vento/ che viene dal Monte Meana,/ dalle grotte in cui il Tallone di spiriti/terrestri sbriciola la lepre estinta,/ e il suo scheletro bianco.»
Poi riprende il viaggio e stavolta è il poeta che attraversa la propria terra dolorosa, per essere gettato fuori, come chi sia scalzo e con la bocca arsa, come chi parli di un passaggio aperto, come chi sia sbattuto da un’onda sugli scogli.
In questa catabasi che è discesa al regno dell’invisibile ma anche al luogo sospeso delle anime non viventi, Magnanti dialoga con i morti, come chi sia vivo e incontri chi sia morto. «Di giorno ho più anime dentro» scrive, ed egli stesso chiede di diventare invisibile (potessi chiedere/ alle notti e al cielo allora/ chiederei di essere invisibile) per calarsi nel paesaggio di chi non è più. «Se un essere umano allunga un braccio e trae a sé pagine scritte, è come se accostasse l’orecchio alla bocca di qualcuno che non c’è. Tra la mano e la mente si stende, per il tempo d’un lampo, una zona oracolare, in cui “il libro” sta per albero, nuvola, pietra, cose del mondo da cui emerge, come se venisse da fuori e in silenzio, la voce interiore.» (Ida Travi)
Così le voci di Dora Comneno, Sergio Atzeni, Pinuccio Sciola, Renato Raccis e quelle dei poeti e scrittori citati Umberto Saba, Percy Bysshe Shelley, Giuseppe Dessì, Vito Riviello, e quelli non citati ma presenti nella forma di ispirazione classica e richiami voluti e inconsci, emersi in questa discesa, si fondono ai paesaggi che hanno abitato, cantato o solo sfiorato; così il poeta “tellurico” si fa numinoso e alle cose non viventi dona una voce come di anima, e le rocce cantano, i venti e le acque cantano, i giunchi cantano, e tutto, vivo, vibra di eguale e smisurata preesistenza, in una tensione elettrica, propria di ciò che muta e dunque esiste: «[…] vive/ una tentazione in ogni brezza,/ e un esistere accanito si flette/ con le vampe d’agosto.»
Il poeta, drammaturgo e romanziere tedesco Gerhart Hauptmann, Nobel per la letteratura nel 1912, diceva che «Esser poeta significa far risuonare dietro le parole, la parola primordiale.» (Jung, Psicologia e Poesia). E cos’è la parola primordiale se non la roccia, l’essere più antico che ha vibrato nel suono del big bang e dell’impatto della nascita del mondo? Così la parola primordiale, la parola del mito, del primissimo suono, è la pietra e Ugo Magnanti, che dedica la sua sesta rapsodia alla memoria di Pinuccio Sciola, scomparso proprio durante la stampa di questo libro, lo sa, conosce la magia delle sue sculture sonore esposte in tutto il mondo, e ne lascia preservato il mistero, l’enigma di cui parlava Ida Travi, consegnandoci il bagliore accecante della luce: «Alla città offrono la nuova pietra/[…]sotto la mano che la vuole viva/ e sente la vena tiepida dove tutto/ è un frammento su cui batte il sole.»
Nei versi di queste sedici Rapsodie Sarde, accompagnate dalle meravigliose tavole di Stefania Sergi, artista sarda, nelle origini, nel sangue e nella veracità del suo popolo, ricorre la parola pietra come una metafora di qualcosa che ha preso corpo, consistenza, ma anche pesantezza: «Ho scheggiato una pietra e spinto/ un macigno» scrive Magnanti, sfuggendo all’indistinto dell’inconscio, del muto, dell’invisibile, del taciuto, del non più vivente, del rarefatto che si adombra e nella forma oracolare del “fissarsi in scrittura”, pare perdere la lucentezza intravista e andare a fondo (perché le voci affondano eppure/sembrano lucenti): «finché/ si dilata una parabola di sassi/ lanciati ai cespugli,/ sempre scherzerà un addio/ respinto dalle vene.»; «le mani sono prese/ da un pezzo di ossidiana/ e indovinano gesti che non conosco»; «ora che hai una gemma al collo e le sorgenti/ ardono, la tua gola è un sasso che scandisce/ tumulti, e accade nel silenzio,/ anche se gli occhi chiedono di andare/ e hanno già dimenticato il dono»; «Una stella è avida sul lavatoio/ e sa farsi ripudiare, e crescere […] / per un segno intuito/ nel tonfo dei panni sulla pietra.»

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Illustrazione di Stefania Sergi, contenuta nel libro

Queste sedici Rapsodie sono un canto pagano di riscoperta in cui ognuno può andare a ricercare la propria vox originis, lasciandosi guidare dal canto delle pietre e dell’acqua e dai suoni che la poesia richiama alla memoria. «Poesia rapsodica del sedicesimo anno del nostro millennio è, dunque, questa nigro simillima cygno o, come si direbbe oggi, più unica che rara costruzione di sapienza e tecnica versificatoria su carta da musica in cui le sillabe-note dei righi-versi fanno canto e poesia all’infinito, per confessione dello stesso autore, oltre i limiti del testo, là nell’ulteriore contralto sedicesimo tra il grave femminile e l’acuto maschile ritmare interiore, anzi, nel suo ‘due volte infinito’» scrive Efisio Cadoni nel suo bellissimo saggio a conclusione dei versi del Magnanti. Un lavoro di pregio e di cesello che vuole pazienza nell’attesa, lo dice lo stesso autore: nelle minuziose note che percorrono l’opera, nella prosa di apertura come chi scivoli su una carta inviolata, come chi inventi un paese, come chi abbia per dovere il mezzogiorno, e nei versi: «Come in attesa di una crepa, annoto/ il respiro degli argini, con gli occhi rossi/ […] perché questo/ è il mio lavoro, è questo ciò che deve fare/ chi sorveglia una diga…». Lavoro che somiglia proprio a un’arnia, in cui per estrarre il miele, ossia la poesia, che ha richiesto tempo e lavorìo, si deve separare ciò che è buono da ciò che non lo è. E mi è tornata in mente, leggendo con attenzione Di allegorico miele (mi sono resa conto che tra riposi e riprese ho impiegato quasi un anno) la sublime riflessione sulla vita che arriva a trasformarsi in metafora di Fabrizio De André in Ho visto Nina volare: nel ritornello «Mastica e sputa da una parte il miele mastica e sputa dall’altra la cera» e che – lo racconta Ivano Fossati, coautore della canzone, durante un concerto a Perugia nel 2000 – fu ispirato a Fabrizio dalla scena di alcuni vecchi che masticavano il favo per separare la cera dal miele, mentre stavano girando il Sud, nei pressi di Matera. Una poesia che va detta, che va cantata, nel senso proprio di masticata, portata di nuovo alla bocca, saggiata, nelle sue molteplici sfumature e richiami profondi, fatta propria nelle memorie dei luoghi e delle suggestioni, andando a ritrovare le allegorie che legano altri significati ai luoghi, reali, metaforici, interiori e narrativi (i tópoi di cui s’è detto) percorsi dall’autore come chi sia perduto e affiori: «E non si sa come sia successo,/ non si è visto l’attimo che cambia, /ma soltanto una strada rigonfia/ che sbuca su una fioritura,/ e il fragore di chi nasce ora:/ un faticoso fiore per tutti.»

Valentina Meloni, Castiglione del Lago 30/11/2017


libro edito da FusibiliaLibri
recensione già apparsa in Diwali- rivista contaminata Autunno XVII

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