“La letteratura non deve risolvere i problemi, semmai [deve] segnalarli… Consciamente o no, uno scrittore coglie i segni e intuisce i tempi che verranno.”[1]
Chissà se gli scrittori hanno colto, negli anni passati, il cambiamento epocale che la rete e i social network avrebbero attuato in così poco tempo. Un cambiamento che stiamo ancora vivendo. Siamo riusciti a raggiungere il maggior numero di utenti nel minore tempo possibile, annullato tempo e distanze, ma l’era della “comunicazione tecnologica e iper-veloce” ci ha privato di due grandi ricchezze: silenzio e tempo. Certo, i pensieri viaggiano ad altissima velocità, così veloci che non si fa neppure in tempo a scriverli e, mi chiedo, se lo scrittore moderno sia in grado di essere così intuitivo, di saper guardare così avanti, di saper catapultare i suoi pensieri oltre la barriera temporale.
Siamo tutti (o quasi) in rete, e ormai in rete si fa tutto. Si compra e si vende tutto (tranne tempo e silenzio), “ci si vende”; noi stessi, i nostri talenti (o pseudo-tali), la nostra vita privata, le emozioni –in primis- sono esposte in milioni di vetrine virtuali. Emozioni: il veicolo di vendita più funzionale nell’era moderna; lo avevano anticipato, già diversi anni, fa Joseph B. Pine e James H. Gilmore, quando hanno teorizzato il marketing esperienziale-emozionale[2]. Siamo target catalogato e ultra-controllato dalle aziende. Le nostre emozioni lo sono. Anche la poesia, custode ultima di quelle emozioni è finita-non ultima- in rete. Per i social network – protagonisti dell’attuale rivoluzione sociale- noi stessi (e le nostre emozioni) siamo il mezzo migliore per “vendere”. I social hanno cambiato la nostra vita in maniera radicale, ogni aspetto di essa (anche la letteratura) è stato influenzato da questo mutamento epocale ma, poiché il cambiamento è ancora in atto, è difficile capire in quali termini accada e a quale risultato porterà. … Tutto è superveloce, e tutto è alla portata di tutti. Gli internauti somigliano ad un popolo di bulimici, fanno grandi abbuffate d’immagini e parole: si saziano senza nutrirsi. Troppe informazioni e (troppa) poca qualità. In questo caos mediatico e subdolamente voyeur siamo in balìa di parole, suoni, immagini che non vorremmo leggere/ascoltare/vedere, e pensiamo di poter scegliere, ci fanno credere di essere liberi, ma non siamo –forse- altrettanto condizionati da noi stessi, di quanto non lo fossimo dalla statica tv negli anni passati?
L’era del consumismo si è insinuata nelle ultime roccaforti del pensiero incontaminato, autentico, dissacratore, pungente, anticonformista, satirico, allopatico della poesia, della narrazione, del giornalismo… Al lettore è affidato un compito gravoso di smistamento. Il lettore incauto e disattendo, colpevoli anche le politiche di scarsa qualità editoriale -e qui bisognerebbe aprire un capitolo a parte- il più delle volte leggerà distrattamente tutto quello che gli sarà proposto, in base agli standard e ai target nei quali si è inserito, facendo le sue “scelte” con giudizio critico, personale o altrui. A questo punto mi sorge ancora un’altra domanda (tra le varie centinaia): la categoria dei critici come si pone, che ruolo ha nella rete; chi è il censore? Ancora il critico, oppure il pubblico/lettore?.
E in questo circo bulimico, esibizionista e voyeurìstico del pensiero in rete, mi chiedo anche dove sia finito quel fare meraviglioso con la parola che sedimenta fantasie, quesiti, emozioni: la Poesia; visionaria, anticipatrice dei tempi, arco che scocca le frecce della satira, della critica civile e dignitosa, dell’esercizio puro di parola che ridimensiona la tragedia umana. La rete è un campo disseminato di frecce che non hanno fatto centro, che non hanno raggiunto il bersaglio (a volte non l’hanno neppure sfiorato), e giacciono lì, arredo di uno spazio immateriale. Qualche anima semplice, ancora, si cimenta con un retino, mentre sono in volo, a seguirne la traiettoria.
Bambini che inseguono farfalle. Li vedo. I loro retini restano subito vuoti, la poesia si sgretola, si perde nel caos generale della vita frenetica. Si può afferrare la fugacità di un pensiero che coglie i segni del cambiamento in atto e che eterna con il suo volo la critica della ragione? In fondo è sempre stato così, ma c’è qualcosa di diverso. La rete ha cambiato la poetica, nel suo concetto originario di parola, di tutto ciò che attiene all’arte. Gli artisti non sono in piazza, ma in una rete virtuale che disperde l’arte e che, se da un lato avvicina l’artista alle persone, dall’altro, di fatto, le allontana dal godimento distaccato e meditativo di cui l’arte ha bisogno. I poeti in rete, oggi, sono un popolo di mistici che non possiedono più una dimensione sacra, sordi e bulimici di consensi rubati alla distrazione. Le bacheche dei social network e dei vari siti poetici, cenacoli di artisti e di scrittori dell’era digitale, sono cimiteri di parole inascoltate, la poesia passa e se ne va, subito rimpiazzata dal poeta di turno che vuole la sua parte di visibilità. Una poesia dopo l’altra, muore il confronto, la critica, la riflessione, lo scambio di voci, il silenzio produttivo, e il cenacolo letterario che dovrebbe contenere il fuoco vivo del cambiamento e della visione futura, della critica, dell’incontro e scontro di punti vista, esala l’ultimo respiro affogando nello scorrere bulimico di sconosciuti che restano immersi nel loro ego senza mai emergere.
“La poesia al tempo dell’autismo corale è destinata a circolare senza suscitare domande” leggo nel blog di Franco Arminio. In rete tutto circola e nulla sedimenta. Sedimentare: questo il compito della poesia più alta, della lettura impegnata. Qualcuno ha anche il coraggio di dire che “fare poesia è un’azione politica, una dichiarazione di resistenza”.[3] E mentre riscrivo questo testo, per quello che considero essere, ancora, un vero (non solo virtuale) cenacolo letterario, che ha rappresentato e rappresenta un “fare politica” in cui posso riconoscermi (non è forse questa una resistenza culturale ?) mi accorgo che il poeta, che vi ho citato poco fa, in politica ci è entrato davvero. Un concetto antico quello del poeta come uomo di comunità, già messo in luce dalla filosofa Maria Zambrano: il poeta è l’uomo della comunità e perciò figurazione del politico.[4] Figurazione del politico o figura politica? Entrambe? Penso a Dante Alighieri, che è stato figurazione e insieme figura del politico. Oggi però non saprei dire chi sia il poeta, quello che so è che, prima di questa rielaborazione del testo, avevo terminato il mio articolo così:
“Mi piace pensare, che la poesia non abbia perso la sua funzione politica. Ce n’è bisogno, oggi più che mai, oggi che la politica ha perso il suo senso civico di “cosa che attiene alla città”, divenendo “cosa che attiene al singolo interesse”. Voglio credere che la poesia, quella vera, non si perderà nella rete… che le farfalle, dalla voce aulica, continueranno a volare –emancipate dall’oblio- sopra i prati della rimembranza.”
Vedete? Mentre lo scrivevo ero già obsoleta! Ebbene, io non so se questa azione poesi-politica avrà un seguito, certo è che ne seguirò gli eventi, sperando di non “perdermi” anche io dentro la rete. Ci sono farfalle più veloci di qualsiasi retino… La morale di tutto ciò è che la mia conclusione a questo articolo resterà un punto interrogativo, non posso concludere, perché qualsiasi pensiero ponessi a sigillo di questo scritto-meteora sarebbe già fuori-tempo.
Ου λέγειν τυγ’εσσί δεινός, αλλά σιγάν αδύνατος[5] Tu non sei abile a parlare, ma incapace di tacere. Lo scriveva Epicarmo, commediografo e poeta greco, ben 400 anni prima di Cristo... Una citazione quanto mai attuale. La pagina bianca resta aperta, come il cambiamento e il cambiamento esige tempo e silenzio… Non un tempo qualsiasi, non un silenzio qualsiasi. Quello che manca oggi alla poesia (e non solo!) si può riassumere in due concetti classici: καιρός e σιγάν.
Il tempo buono dei Greci, καιρός, il tempo “consapevole” di natura qualitativa e non quantitativa, che fornisce le intuizioni, che fotografa ed eterna gli istanti focali di ogni era, gli attimi scrittori della storia vera, quella “storia nella storia” fuori dai libri di testo, di cui poeti, e artisti di ogni tempo si sono fatti e si fanno portavoce e, al medesimo tempo, testimoni.
Silenzio. Il grande assente dell’era moderna. Quello stato mentale e fisico cui i greci attribuivano significati di ordine divino o sacrale, σιγάν (letteralmente fare silenzio), il silenzio mistico in grado di annunciare la nascita così come la fine, quel silenzio meditativo che “scrive” noi stessi e di cui, solo in silenzio, noi stessi possiamo scrivere. E allora mi chiedo, rubando la parola poetica a un’altra cacciatrice di farfalle, che voi ben conoscete:
“ come si fa
a fare quel silenzio che prevede parole
prima (però) del quale
è assoluto divieto
salire la parola e le sue scale?”[6]
Esisterà un concetto di diminuzione applicabile all’era moderna? Una “decrescita felice” (anche) per la poesia? Un futuro in cui si dia maggior valore al tempo e al silenzio (quel tempo e quel silenzio che vanno oltre le parole…)?
(Valentina Meloni)
[articolo pubblicato sul n.98/99 de L’area di Broca- semestrale di letteratura e conoscenza (già Salvo Imprevisti)]
In questo numero presente anche un racconto dal titolo “Fuga da fb, ovvero il passato che ritorna” scritto con Massimo Acciai
Note
[1] Joe R. Lansdale, da un’intervista al magazine XL, ottobre 2005
[2] L’ economia delle esperienze. Oltre il servizio, Pine Joseph B.; Gilmore James H.
[3] Lo scrive la poetessa Maria Grazia Calandrone, in un suo articolo apparso su Il Manifesto del 13 luglio 2011, intitolato: “Fare poesia è un’azione politica”.
[4] Pina de Luca nella prefazione di “Filosofia e Poesia” di Maria Zambrano
[5] Frammento 272 Kaibel di Epicarmo (524 a.C. circa – 435 a.C. circa)
[6] Mariella Bettarini, Il silenzio scritto, 26
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