esisterà un sogno sognato in cui ci siamo spogliati delle pesanti corazze di poeti e ci siamo detti il lutto dell’esistenza un attimo in cui i nostri fiati si sono mischiati ai sospiri del vento le mani intrecciate per non perdersi gli occhi inchiodati agli occhi per ritrovarci esisterà un sogno sognato in cui ci siamo scambiati la malinconia tu la mia ed io la tua in cui ci siamo nutriti solo di sguardi — affamati come lupi di branco — in cui abbiamo fatto dei boschi rifugi in attesa di concerti silenziosi di carezze di neve nelle mani assetate ho fatto mio il pensiero d’una piccola casa di un fuoco sempre acceso di una tana tra gli abeti lontana dalle nostre vite lì solo il crepitio del silenzio e le nostre anime nude al chiarore della fiamma la danza delle ombre sui corpi e il mondo che si ferma dietro ai vetri sulla nuca i tuoi respiri i battiti veloci che gonfiano le vene solo noi dentro una notte accesa e senza tempo
non crederesti mai che le poesie camminano tra la gente escono dalle case, dalle librerie impolverate si nascondono nelle tasche dei passanti dentro le mani foderate di guanti salgono sull’autobus, sul tram, in equilibrio alla prima curva potrebbero scivolare via dal finestrino fin su la lingua di quel bambino e poi più su… su su su sulle ali degli aeroplani fanno capolino dai finestrini anche dentro i treni sepolte nei cassetti bruciate nel caminetto, non smettono di camminare sui fili del telefono nelle lettere di carta, nelle lettere pensate quelle mai spedite, quelle dedicate quelle dimenticate e poi le poesie che non si lasciano scrivere che se ne vanno via su un altro pianeta che rinascono come un filo di seta trasparente catturando le gocce d’acqua la pioggia sfuggente ricamando nel sole la parola mancante alle labbra dell’aurora. non crederesti mai che le poesie
Edito da Terra d’ulivi edizioni nel 2018,Il suono del grano di Mariangela Ruggiu è una raccolta di oltre centoventi poesie che portano la voce inconfondibile di un’autrice sarda il cui valore si è andato consolidando nel tempo, anche durante anni di lunga pausa a cui sono seguite più mature e consapevoli pubblicazioni.
Il suono del grano, bellissimo ed evocativo titolo, è una metafora che indica l’indicibile, l’impalpabilità della poesia e l’invisibile bellezza che si può cogliere solo con il cuore. In una parola, l’essenza poetica. Ma è anche un filo conduttore, una lunghissima traccia che percorre tutta la raccolta fino alla fine, fino alla chiusa, quasi che l’autrice abbia voluto lanciare un messaggio che ci è dato scoprire grazie alla nostra sensibilità di lettori.
Il suono del grano è la voce della poesia, voce che emerge solo dopo aver fatto spazio, solo dopo aver messo da parte l’io per rendere il dono:
“tolgo l’io che si fa padrone del significato/ come se fosse mia la poesia/ e non un dono che diviene…”
“niente resta di me, solo un corpo posato/ come il vestito sulla sedia”
“vorrei la neve, e tutto sparire/tornare al mio sonno…/ dimenticare il corpo/ entrare nel niente”
Ma è anche ciò che viene prima di ogni cosa, perfino prima della parola:
“c’è bellezza che è prima della parola/come germe nel grano, profumo nel pane”
ed è volo, germogliar di ali, vortice ellittico di elevazione, rinascita e trasformazione:
“poi un giorno di marzo/ sentii un germogliare di ali/il cielo aprì l’abisso”
” essere totale assenza non mi dispiacerebbe/ e lasciare tutto lo spazio a fioriture di rose antiche”
ed è anche una dichiarazione di poetica, umiltà di chi sa che la poesia è un vento che va e viene, e il poeta uno strumento:
“non voglio scrivere una poesia/ voglio vedere/ voglio sapere/ senza la rima/ senza il metro/ senza armonia…”
“apetto che diventi una poesia/ questo senso gravido del silenzio/ non mi aspetto che sia una cosa buona/ neanche che illumini, che salvi qualcuno/ che curi una ferita e , ancora meno, che faccia / di me un poeta”
alla fine una dichiarazione di sconfitta, di questo senso di incompiuto di insoddisfazione che spesso pervade il poeta, perchè non ci sono parole per ogni cosa…
“non ci sono parole/ che abbiano il suono del grano//ci sono poesie/ che non si possono scrivere”
Ma Il suono del grano è il calore della lingua materna, il fine ordito della lingua della poeta in questa bellissima raccolta che si è fatta tela in ricami nascosti perchè “si arrivi all’amore tramite l’amore”:
“io vorrei, la mia mano sulla tua/ lasciarti il calore del fuoco/un cibo dolce, la voce della Madre”
“ma tu mi chiami con questa voce che diventa/ un cordone ombelicale, e invoca nutrimento,/ così ti penso, e provo a farmi cibo di parole…”
Mariangela Ruggiu con questa ultima raccolta si conferma fine poeta che possiede il linguaggio delle donne e lo rimanda ad altre donne, a uomini che conoscono e riconoscono la lingua della Madre e il suo mirabile canto e suono…
cosa muova l’onda
se fosse mancanza si stupirebbe il mare
si leva dal profondo
come volesse penetrare ilmcielo
s’inarca e si posa
veste gli scogli e li spoglia
cosa muova l’andare e il ritornare
quale fame, quale assenza
non chiedere il senso dei passi
che vanno a te per ritornare
come se fossi tu scoglio
io il mare
due che si amano
camminano vicini
anche senza che si sfiorino
o si guardino
lo vedi che si amano
dal passo sincrono
camminano sul bordo della guerra
e con la mano accostano
i lembi delle ferite
non fuggono
vanno con passo fermo
e con le macerie dentro gli occhi
il mondo ne vede due
eppure è Uno
piove
senti la gioia degli alberi ridono anche quelli senza foglie
ieri la gola era senza voce la pelle ruvida gli occhi pieni di sale
ora scorre acqua su di me come nelle strade lucenti mi attraversa come fossi terra arata
E’ online il numero XX di Diwali a tema “Sconfinati Spazi”. In questo numero vi parlo dei luoghi di Emily Dickinson
Dell’esperienza del nostro spazio la conoscenza che abbiamo sicuramente possiamo definirla “di prima mano”: lo spazio lo abitiamo, lo attraversiamo, lo trasformiamo, lo decostruiamo (al limite massimo dell’umana esperienza, come salto evolutivo di coscienza).
Lo viviamo dall’interno, il nostro spazio: spazio mentale, meditativo, silenzioso o tremendamente rumoroso – animali estremamente pensanti, siamo, pensanti di materia affabulante, caotica, creativa.
Lo viviamo all’esterno: il nostro corpo di materia si muove, ha confini che incontrano l’altr@, l@ toccano, confini che con l’altr@ si scontrano, per affermare la presenza, ribadirla, segnarla. O anche accrescerla, virtuosismo dell’atto dell’abbraccio che, nello spazio in cui avviene, di due ci consegna un uno dai confini con-fusi.
Spazio nostro, spazio altrui, spazio di nessuno, spazio sconfinato cosmico, spazio liquido, in cui la presenza è tanto diluita da farsi eterica, presenza non presenza nello spazio di un web in cui del corpo ci liberiamo e diventiamo leggeri come d’anima, e il tocco si fa parola, quasi a sfiorare parole sacre in cui il Lógos avrebbe davvero tanto da dire.
La lista delle riflessioni potrebbe allungarsi a dismisura, in quest’anno che ci ha messi a sedere di fronte a noi stessi, alle nostre piccolezze, alle nostre grandezze, alle nostre insensatezze. In quest’anno, in cui spesso, molto spesso accade di chiederci: “cosa ne sarà, dell’arte, della presenza nello spazio in cui per sua natura accade? E del nostro darci nell’arte, e del pubblico che in uno spazio comune la vive?”.
Un lungo anno di domande, fatte per forza o per volontà di avanzare in un cammino confuso che di domande si nutre, e se ne nutre per desiderio di risposte che abbiano il valore della ridefinizione di quello spazio che sembra aver capovolto ogni senso fino ad oggi noto.
Noi di Diwali continuiamo a interrogarci: noi, che il limite abbiamo voluto spingerlo sempre un poco più in là, in spazi non battuti, scomodi a volte per accasarci una presenza, a volte tanto silenziosi da rasentare il rumore.
Spazi dal confine strappato, poi ricucito, magari anche in malo modo.
E continuiamo a farlo, a maggior ragione in questo annus horribilis, convinti sempre, e più che mai oggi, che il luogo dell’arte, e dell’essere umano, sia proprio quella esse privativa del confine, quella esse in cui non di privazione vive e si vive, ma bensì di centuplicate possibilità di espressione.
Buona lettura
Maria Carla Trapani per Diwali
A pag 14 il mio contributo che potete leggere e scaricare gratuitamente qui
Pubblicato da Nulladie Edizioni nella collana I Saggi, in agosto 2020, Eppure ancora i nespoli – dissertazioni sullo Haiku di Antonio Sacco è un libro ibrido che si pone a metà tra il saggio e la silloge poetica.
Antonio Sacco esordisce con questa prima pubblicazione monografica che si può dividere idealmente in tre parti.
La prima in cui raccoglie cinquantotto haiku commentati singolarmente, ed è la novità di questo libro in cui anche un lettore neofita e che non sa nulla di haiku può sperimentare la loro lettura in maniera più precisa e competente, profonda.
Nella seconda parte, invece, Antonio raccoglie i vari saggi e articoli sullo Haiku che ha scritto e pubblicato nel corso di questi anni. I saggi e gli articoli che compongono la seconda parte del libro sono tutti corredati da esempi e presentano haiku di maestri o di haijin contemporanei o dello stesso Antonio, a dimostrazione delle tesi proposte.
La terza parte accoglie sei haibun o scritti haikai: tre sul suo viaggio in palestina; uno sul viaggio in Norvegia; uno sulla poesia haiku e l’ultimo descrive ambientazioni familiari.
Il titolo del libro prende spunto da un haiku dedicato ad un caro amico scomparso che ricorda molto un haiku di Kobayashi Issa:
Mondo di sofferenza: eppure i ciliegi sono in fiore.
La prefazione scorrevole e accurata è opera di Matteo Contrini. Ad apertura di quest’ultima campeggia una domanda che vorrei girare ai lettori, la domanda è la seguente:
“se i grandi poeti italiani del passato avessero sperimentato la via dello haiku, di quali risultati ne avrebbe giovato la nostra letteratura?”.
Di questo libro ciò che ho amato di più sono proprio gli haiku che, naturalmente io avevo già letto e conoscevo, perchè seguo Antonio da diverso tempo- Ma trovarli raccolti tutti assieme e poterli sfogliare è decisamente un dono a cui non ci si può sottrarre.
Personalmente ho trovato apprezzabili i commenti anche se, probabilmente un lettore più esperto vorrebbe farne a meno, tentando di scoprire da sè quale poetica percorre il nostro Antonio. Vorrei per questo riportare gli haiku che più mi hanno colpita, senza alcun commento, lasciando al lettore il gusto della scoperta e della bellezza pura, priva di appendici.
tra cento primule
un fiore senza nome
si schiude all’alba
l’ombra di un pesco
accarezza la mia
nel plenilunio
una libellula:
nelle sue ali un lampo
d’arcobaleno
spaventapasseri —
proprio lui depredato
per esser nido
senza commiato —
eppure ancora i nespoli
stanno fiorendo
la foglia secca
somiglia a una farfalla
poi — la caduta
notte d’inverno —
riflesso in una pozza
il firmamento
In conclusione l’opera di Antonio percorre le tappe di uno studio e di un percorso sulla via dello Haiku e questa è una constatazione palpabile attraverso la lettura di questo testo.
Antonio ha abbracciato la via dello Haiku attraversando vari aspetti della cultura giapponese (praticando origami, suseki, bagni di foresta, contemplazione della natura, Kinstugi etc…) , per questo ritengo il suo approccio, tra i più autentici che io abbia mai incontrato.
E spero, un giorno, di ricevere in dono uno dei suoi bellissimi origami o di riuscire a replicare una delle sue bellissime gru di carta… Magari ci riuscirò alla millesima con la quale poter regalare a qualcuno un desiderio da esprimere come nella leggenda delle mille gru di carta…
Oltre al rapporto con le arti tradizionali della pittura e della fotografia, e con quelle della tradizione giappponese come la calligrafia, l’ikebana e la pittura sumi-e, l’Haiku si combina anche con altre forme d’arte, come la musica (ne abbiamo dato esempio in Gust of wind di Paola Venezia) la danza e varie forme di arte plastica: architettura, scultura, ceramica, arte tessile, arte cartacea, origami, ebanisteria, mosaico, ialurgia, oreficeria, gioielleria etc…Queste ultime sono meno comuni e, certamente, più difficili da riprodurre, ma sono altrettanto interessanti e seguono i criteri estetici comuni all’Haiga. In “Under the sea” Kazumi Karaki combina l’arte orafa, che prosegue la tradizione di Minoru Azama attraverso la tecnica della fusione a cera persa, con la poesia Haiku e la presenta in ventiquattro creazioni originali e quattro varianti linguistiche che hanno ognuna una propria armonia compositiva. Questo numero di Komorebi nn Italian Journal si pregia della traduzione spagnola di uno dei maggiori poeti di Granada, Pedro Enríquez e presenta per la prima volta al pubblico internazionale gli haiku dell’artista Kazumi Karaki.
In “Under the sea” Kazumi Karaki combines the goldsmith’s art, which continues the tradition of Minoru Azama through the lost wax casting technique, with Haiku poetry and presents it in twenty-four original creations and four linguistic variants that each have their own compositional harmony. This issue of Komorebi nn Italian Journal boasts the Spanish translation of one of the greatest poets of Granada, Pedro Enríquez, and presents the haiku by artist Kazumi Karaki to the international public for the first time.
Per la rubrica Oltremare in Poesia: Femminile, singolareoggi pubblichiamo sei poesie da “Haunt” di Susan Mac Master tradotte da Angela D’Ambra. Sono tutte inedite in Italia, non incluse nella silloge Visitazioni, poesie scelte da Haunt di Susan McMaster, terza plaquette della collana Foglie d’acero, pubblicata in Italia da IMPREMIX.
Susan McMaster è poetessa, redattrice letteraria, poetessa performativa canadese. Vive a Ottawa, Ontario, dove si è trasferita con la famiglia nel 1955 e dove ha frequentato la First Avenue Public School, Elmdale, Connaught, Lisgar Collegiate (1966), la Carleton University (B.A. inglese; studi universitari in giornalismo 1970), e l’Ottawa Teacher’s College (Elementary Certificate 1971).
I suoi libri di poesia più recenti (anteriori a Haunt) sono: Paper Affair: Selected Poems e New (Black Moss 2010); Pith and Wry: Canadian Poetry (Scrivener Press 2010) e Crossing Arcs: Alzheimer’s, My Mother, and Me (Black Moss 2010), finalista per l’Acorn-Plantos People’s Poetry Prize (2010), per l’Ottawa Book Awards (2010) e per l’ Archibald Lampman Poetry Prize (2010). Susan è autrice di varie raccolte di parole e musica, registrazioni di poesia per performance, copioni; ha curato antologie e puvìbblicazioni di poesia; è stata fondatrice ed editore della rivista nazionale femminista e d’arte Branching Out (1973-).
Nella ferita del mondo offeso sopravvivono brincelli vivificanti gli strati dolenti: sono nuclei di bellezza, figure eterne che riconsegnano all’anima il dispiegarsi in volo; l’innalzarsi sopra la gravità della materia, il groviglio delle cadute rovinose, la cecità sul prodigio che affiora nella prossimità dell’incontro: come in Gustavo Adolfo Bécquer fiorisce «sobre el volcán la flor», nel «dialogo in poesia» fra Giorgio Bolla e Valentina Meloni germogliano “neve, fiore” come alchimia di elevazione dalla densità materica della vita accanto a “nome, tempo, notte, sogno, ritorno,…”, alcuni dei topoi della silloge in cui « … il granello prepotente, sfuggito al corvo, / confinato in impronte pressate senz’aria, / s’innalza più forte, uccide il buio cieco, /si contorce di sbieco a cercare un varco…»