
Nel Piccolo Florario di Adriana Gloria Marigo, la parola poetica si fa erbario sapienziale, atlante affettivo e meditazione liturgica sul tempo e sulla luce, affidando ai fiori – ai loro nomi, alle loro presenze e metamorfosi – la funzione di simboli viventi, figure di un pensiero in ascolto della natura e delle sue inavvertite rivelazioni. Fin dal titolo, il libro si presenta come un’eredità culturale che richiama i florari medievali, gli erbari poetici e sapienzali che univano scienza e simbolo, ma aggiornato qui alla sensibilità moderna. Si tratta di un libro che si presenta come una raccolta minuta e contemplativa, dove l’aggettivo “piccolo” non allude tanto alla dimensione materiale dell’opera quanto alla sua intenzione stilistica: un’arte della misura, del dettaglio, della bellezza colta nel suo farsi.
La poesia della Marigo si inserisce in una tradizione che unisce la contemplazione della natura con la riflessione filosofica e spirituale, e si nutre di riferimenti espliciti ed impliciti a una costellazione di voci poetiche novecentesche che hanno saputo affidare al paesaggio la lingua più profonda dell’anima. Le epigrafi iniziali (Zanzotto, Prete, Machado, Bacchini) sono dichiarazioni d’intenti: con Zanzotto condivide il culto della parola come materia vivente; con Bacchini, l’idea che la scrittura sia vegetale e che la natura non sia oggetto, ma soggetto del discorso poetico; con Machado, la nostalgia e la fragilità del tempo che scorre «del verde mustio / de las marchitas frondas». Non manca un richiamo alla filosofia, nella dedica a Maria Zambrano, pensatrice della luce e della “ragione poetica”, e in un’aura sapienziale che pervade il libro, dove «gli alberi parlano la lingua sapienziale» e la natura si fa codice etico e conoscitivo.
Da Zanzotto a Bacchini, da Prete a Machado dunque, ma anche da Emily Dickinson a Pierre Chappuis, la cui frase in chiusura del libro può essere letta come una chiave di poetica: «Tra autore e lettore, niente più che un fascio di parole, che sono tutto; tra di loro, l’inafferrabile». È proprio questo “inafferrabile” che il Piccolo Florario tenta di far balenare, affidandosi a un lessico prezioso ma mai barocco, a un tono alto e insieme intimo, a una sapienza lessicale botanica che si fonde con l’ethos della parola poetica.
Lo stile è raffinato, intensamente musicale, spesso costruito su immagini che uniscono concretezza e astrazione: «il tempo / erompe in gemme rubine e topazie»; «il giglio marino forgia luce nera / ai prismici semi naviganti». La sintassi talvolta si frange in enjambements lievi, a suggerire l’andamento del respiro e la disseminazione dei fiori nel testo, mentre il lessico si arricchisce di termini botanici precisi (Pancratium maritimum, Parthenocissus quinquefolia, Ceratophillum demersum), che vengono “umanizzati” in una liturgia naturale e mitopoietica.
Nel libro, i fiori non sono soltanto presenze naturali o pretesti decorativi, ma vere e proprie entità agenti, dotate di forza espressiva e spirituale. Alcuni componimenti portano i nomi latini delle piante (“Wisteria”, “Tilia grandiflora”, “Ceratophillum demersum”), quasi a restituire a ciascuna specie il suo statuto nominale e sacrale. In questa attenzione alla nomenclatura scientifica si coglie anche un’eco dell’antica sapienza monastica e dei bestiari medievali, in cui ogni nome custodiva un senso da decifrare.
La struttura del libro segue il ritmo delle stagioni, accompagnando il lettore in un cammino che si fa diario interiore e liturgia del tempo: «Torna l’ora che acquieta la notte / entro le soglie dorate di maggio – / destino di verzieri fiorenti / nei giorni dei gemini». Qui il tempo non è solo cornice ma sostanza stessa del poema, come se la parola poetica dovesse ogni volta rinascere con la fioritura, o inabissarsi con la caduta delle foglie.
La lingua di Marigo è tesa, musicale, selettiva, colta. In essa si intrecciano vocaboli desueti (“porporino”, “aulente”, “verziero”), forme latineggianti e una sintassi ampia, che predilige l’enjambement e il rallentamento del verso. Le immagini sono costruite per evocazione più che per narrazione, secondo una modalità spesso prossima alla lirica simbolista. La natura è colta nel suo fremito sensibile, nella sua vocazione a divenire “altro”: «Il giglio marino forgia luce nera / ai prismici semi naviganti», oppure «Nel lamineto tutto s’addice / alla vita minima d’acqua e d’aria».
Non mancano, nel Florario, i paesaggi precisi e amati – il Lago Maggiore, la Valcuvia, Caorle, Venezia, Asolo – che rivelano una geografia dell’anima radicata in luoghi vissuti e trasfigurati, un rapporto intenso con l’elemento vegetale e con la luce come principio generativo: «La luce diurna v’inonda di colore / la stretta lucente vi radica alla terra / morenica, v’inchioma i canti». La luce, elemento ricorrente e polisemico, attraversa l’intero libro: «la luce notturna vi cinge d’effluvi», «l’incerta luce», «la materia vegetale della luce». Essa è soglia tra visibile e invisibile, tra fisico e metafisico, rendendo la visione poetica una forma di epifania.
Il rapporto tra uomo e pianta è tematizzato anche in chiave ontologica. L’osservazione di un glicine appena germogliato si fa riflessione sulla resilienza e sullo slancio vitale: «Del suo acerbo verde leggero / s’allegra la norma botanica, / specchiata nel mio codice umano». In altri luoghi, è il fiore stesso a incarnare una forma di presenza alternativa, non antropocentrica, in armonia con le leggi segrete del mondo: «Qui non ci sono gli attriti del tempo, / il curaro di sue pargolette invidie».
Le dediche poste a inizio e fine sezione – a Maria Zambrano, Silvio Aman, fine prefatore dell’opera, Silvio Raffo, Paolo Menon, Antonella Barina – non sono semplici omaggi, ma aperture dialogiche, richiami alla comunità dei viventi e dei pensanti che con la poesia condividono una stessa tensione verso il sensibile e l’invisibile. La Zambrano, in particolare, con la sua filosofia poetica e visionaria, sembra offrire una sponda alla scrittura della Marigo, che cerca nel chiaro del bosco «l’onda vegetale / sotto l’aria vaga e raminga».
Infine, l’intero libro può essere letto anche come una meditazione sulla metamorfosi – stagione, luce, pianta, parola, essere – e sulla necessità di un’adesione armonica al ritmo del mondo, contro ogni artificio o distrazione. In questo senso, il Piccolo Florario è un libro che resiste alla velocità, che chiede tempo, silenzio, presenza. E che nel gesto apparentemente semplice di nominare un fiore restituisce al lettore il respiro più profondo del vivere.
*
C’è una prospettiva di cielo
assoluto, luce che tarda
a decrescere tra i rami
ancora per poco bruniti.
Fra non molto –
a una curva, improvvisamente –
gemmerà l’accordo dei fiori.
*
Nelle notti di primavera gli alberi
parlano la lingua sapienziale
al cospetto del demone benedetto
che avviva di luce mirabile
i giorni dell’effuso diletto
e più tardi, dell’autunno sfarzoso
il prestigio morituro di tutto il colore.
*
A Maria Zambrano
Che cosa illumina
questo chiaro del bosco che gentile
scende tra le fronde fresche di linfe
all’erba che guardo e m’intenera,
onda vegetale
sotto l’aria vaga e raminga?
*
A Silvio Aman
Cerco i fiori. Dei loro colori
s’inebria il mattino, la luce
fluisce dall’arresa corolla
alla trama di mia vita
l’incessante movenza d’onda,
sposa ai citrini fiorili
la liturgia della parola.
*
Valentina Meloni, Castiglione del Lago, 14/06/2025
La Marigo è un’autrice molto dotata
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sì sulla Poesia e anche sull’aforisma è davvero speciale …ciao Flavio
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