Intervista a Emilio Paolo Taormina

INTERVISTA a Emilio Paolo Taormina: LA STORIA COME TESTIMONIANZA a cura di Valentina Meloni

1) Emilio Paolo, intanto grazie per il tuo tempo e la tua disponibilità. Vorresti raccontarci un po’ la tua storia?

taormina-2Sono nato nel 1938 a Palermo. Mio padre era medico, nipote del grande entomologo Enrico Ragusa, fondatore del “Naturalista Siciliano”. Il Darwin siciliano dell’ottocento. Fin da bambino seguivo mio padre, anche lui entomologo, nelle gite. Qui ho sviluppato un elevato senso dell’osservazione dei particolari e ho imparato a leggere il libro della natura: un nodo inestricabile sulle origini e l’esistenza di Dio. A casa c’era una vasta biblioteca e ho cominciato a leggere di tutto e disordinatamente. Come molti coetanei amavo il calcio: facevo parte della squadra parrocchiale. Ero bravo nelle attività sportive e nel 1956 sono stato campione provinciale di salto in alto. Non ero uno studente esemplare e negli anni di ginnasio e liceo, sono stato rimandato in greco e matematica. A tredici anni m’innamorai della musica jazz e cominciai a seguire sul “Notturno d’Italia” le trasmissioni e investivo i miei risparmi nell’acquisto di vinile.
Nel 1954, avevo sedici anni, ho pubblicato la prima poesia, dal titolo “La soffitta” nella rivistina del liceo Umberto I. Con un’ amica andavamo, talvolta, a visitare le zie che abitavano in un antico palazzo nobiliare ed ero rimasto sommerso dalle atmosfere surreali, misteriose, progressive, decadenti, come di un profumo che non vuole estinguersi. In quegli anni avevo preso l’abitudine di raccogliere pensieri, racconti e poesie nei quaderni senza l’idea minima di pubblicarli. Scrivevo, anche, sulla musica i testi per un amico che studiava al conservatorio.
Sono gli episodi che hanno scritto la mia vita. Nel 1956 durante una gita ai templi di Agrigento, ho incontrato una ragazza olandese, Anita, con la quale iniziammo un’intensa corrispondenza. Conseguita la maturità classica decisi di partire in autostop verso l’Olanda. Dal ’57 al ’61 vissi lì, lavorando in una fabbrica di alluminio. Alla fine del ’61, in attesa della primogenita, Elena, e con l’insistenza di mia madre che voleva che completassi gli studi universitari, ritornai a Palermo.

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Ormai maggiorenne, svincolai una cifra ereditata dalla nonna, e iniziai un’attività commerciale musicale specializzata in rock, folk, blues e jazz. La boutique della musica fu da subito un luogo d’incontro d’intellettuali, musicisti, giornalisti. Si vendeva qualche vinile, ma si parlava molto di musica, di libri, di cinema. Ero certamente preparato nel jazz e nelle nuove tendenze musicali, ma scoprii che avevo molto d’apprendere dagli amici clienti. Fu in questo bugigattolo che acquistai coscienza di me stesso e mi giurai che volevo essere poeta e scrittore.
Nel ’64 cominciavo a mettere in piedi le raccolte poetiche “Il fonografo a colori” e “Deserti”. Nel ’65 portai a termine la stesura del mio primo romanzo : “La stanza sul canale”. Nel ’73 pubblicai a mie spese, quasi contemporaneamente, “Il fonografo a colori”, “deserti” e “La stanza sul canale” con la prefazione di Elio Giunta. Inaspettatamente i libri ebbero successo di critica. In particolare una recensione di Vera Passeri Pignoni – sulla rivista Forum Quinta generazione – dell’editore Giampaolo Piccari di Forlì. Con l’editore forlivese si stabilì un rapporto di stima e amicizia. Ho pubblicato tutte le mie opere degli anni ottanta e novanta con la Forum fino alla morte di Giampaolo Piccari. Dal 2000 vivo in un rustico, perso nella campagna dentro un uliveto. Ero venuto con una compagna tedesca ch’era mia traduttrice. Dal 2008 vivo da solo. Nel 2012 la mia attività commerciale è stata travolta dalla crisi. Ho 78 anni e molti dei miei amici sono morti o hanno difficoltà a venirmi a trovare…forfatter-tolstoj-lev

2) Quando ti leggo ho l’impressione che tu abbia affidato alla poesia il compito di tratteggiare dei piccoli quadri in cui rivivono frammenti di vissuto. Della tua scrittura dici: “La mia scrittura, poesia e narrativa, nasce dalla vita vissuta, non sono capace di scrivere nulla che non sia entrato nel mio sangue”. Si può considerare quindi la tua come una scrittura di “memoria”? E la poesia si può considerare una testimonianza storica? Se sì, perché?

Ti rispondo con una citazione di Lev Nikolàevič Tolstòj tratta da Guerra e pace:
«Coscientemente l’uomo vive per sé, ma incoscientemente, diventa lo strumento atto a perseguire i fini della storia, della comunità umana. Una volta compiuto l’atto è irrimediabile e le sue conseguenze, coincidendo nel tempo con milioni di altre azioni di altri uomini, assumono un significato storico.»
Dal momento che l’uomo non è un’isola, ma vive in un contesto sociale fatto di uomini, io penso che, inevitabilmente, ogni tipo di scrittura, suo malgrado, assuma la connotazione di testimonianza storica. Noi, infatti, viviamo e ci nutriamo del contesto da cui siamo circondati e anche la scrittura si nutre di tutto ciò.

copertina la cengia del corvo il foglio3) Nella tua ultima raccolta di poesie “La Cengia del corvo” uscita pochi giorni fa per i tipi delle Edizioni del Foglio Clandestino c’è una poesia in cui racconti un episodio della tua vita di bambino durante la guerra. “dov’è /la ninnananna/che mi cantavi/ nel rifugio/tra esplosioni/ di bombe/e crepitio di mitraglie/le parole/ erano allegre/e sul tuo volto/era scolpito/un sorriso/come se fosse/ un fuoco d’artifici”. Puoi raccontarci come vivevi gli anni dell’infanzia durante la seconda guerra mondiale?

La poesia che citi è un lampo di memoria che mi è ritornato in mente guardando nei telegiornali le immagini della guerra in Oriente. La seconda guerra mondiale è finita, ma le guerre continuano ininterrottamente. Quando sbarcarono gli alleati in Sicilia, avevo cinque anni, assistevo dalla casa di campagna, dove eravamo sfollati, ai bombardamenti su Palermo, come a un grande fuoco d’artificio, ma non mi rendevo conto della carneficina. Mio padre lavorava come medico a Palermo. Un giorno ritornò a casa con la giacca a brandelli, come uno spaventapasseri, la camicia attaccata alle pelle delle spalle per lo spostamento d’aria delle bombe. Era riuscito a salvarsi buttandosi a terra sotto un marciapiede. Restò insordito per qualche tempo… Ricordo che mangiavamo sempre minestre, con molto olio del nostro uliveto e pochissima pasta. Eravamo tre fratelli e una sorella e secondo l’estro delle galline, talvolta, ci capitava di mangiare mezzo uovo. Ricordo anche che per farmi il bagno la nonna metteva una tinozza di legno in terrazza per farla riscaldare al sole, per me era un divertimento più che una scomodità o una privazione… Mia madre era una donna molto forte e colta, non faceva trapelare i disagi a noi bambini.

4) Nelle tue poesie e nei tuoi racconti sono vividi i ricordi in cui rivivi gli anni della guerra. A distanza di quasi settant’anni questi ricordi si sono affievoliti o rivivono come fossero un’esperienza recente? Per scriverli hai dovuto scavare o sono riaffiorati spontaneamente?

Le esperienze che ho vissuto durante la seconda guerra mondiale, vivono ancora in me, anche perché avevano bisogno di quell’analisi avvenuta in età matura attraverso la memoria e più in là attraverso i miei libri, che ne sono testimonianza e, in qualche modo, prosecuzione.

5) In Inchiostro (Ed. del Foglio Clandestino, 2010) hai affidato alle pagine dei tuoi racconti la memoria degli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in cui racconti moltissimi episodi legati ai momenti difficili dell’occupazione nazista. Trovo che sia un libro importante perché narra la storia dal punto di vista di un bambino. In uno di questi racconti tratteggi la figura di un soldato tedesco, Hans, con cui avevi instaurato un’amicizia speciale. Ce la vorresti raccontare?inchiostro-taormina

Gli alleati liberarono la Sicilia in poco meno di due mesi e non ci fu né occupazione nazista, né guerra partigiana. Moltissimi siciliani avevano parenti in U.S.A. e Canada, l’emigrazione era un sogno: tutti sapevano che in America c’era lavoro e ricchezza e con le truppe di occupazione si creò subito empatia. Qualcuno dei soldati americani, in quanto discendente di immigrati, parlava un dialetto siciliano o napoletano arcaico che ormai era diverso dalla lingua e dal dialetto che si parlava in quel momento: era incomprensibile, tuttavia l’effetto era curioso e tendeva a creare simpatia. Ricordo che, anche prima dello sbarco, mio padre e qualche amico, la sera tardi, ascoltavano “Radio Londra”. Mi ritorna ancora nelle orecchie la voce dello speaker… Nessuno amava la “guerra di Mussolini”.
Un gruppo motorizzato tedesco era accampato sulla collina di Suvarelli, al confine del nostro podere e, molto spesso, i soldati venivano a riempire la borraccia nella sorgiva della nostra proprietà. Tra questi c’era Hans, un sodato tedesco non più giovane. Era una brava persona. Mi faceva vedere le fotografie della sua famiglia. M’insegnava i nomi delle città. Mi metteva sulle sue spalle e giocava a farmi fare il treno.

6) Sempre in Inchiostro racconti il momento in cui, ancora bambino, ti sei reso conto non solo che c’era la guerra ma cosa fosse realmente con le sue perdite, con il suo bagaglio di sofferenza e con i rimpiazzi veloci ai traumi che la vita suggeriva per poter andare avanti. Ricordi quel momento?

All’improvviso il gruppo motorizzato tedesco partì. Era notte. C’era un forte vento di scirocco. I motociclisti andavano incurvati come gobbi ai lati della trazzera in assetto di guerra, al centro scorrevano i camion e i mezzi corazzati a fari spenti. Avevano lasciato una grande tenda nell’accampamento e c’erano ancora gli slarghi profondi dov’erano state disposte le mitragliatrici antiaeree… Hans era rimasto a guardia della tenda. Non era più amichevole con me. Se provavo ad avvicinami per curiosare, mostrava il mitragliatore e mi cacciava urlando.
Un giorno arrivò una jeep americana con sodati guidati da un contadino. Ci fu un rapidissimo susseguirsi di spari. Poi arrivò un camion per caricare ciò che c’era nella tenda e le appiccarono il fuoco. I soldati americani non facevano avvicinare i civili. Andarono via dopo il tramonto. L’indomani mattina andai a curiosare nell’accampamento. C’era odore di bruciato e di grasso di macchina. Hans era morto ai piedi di un ulivo, con l’elmetto vicino a un braccio e la faccia verde che aveva ripreso il suo aspetto bonaccione. Era il primo morto che vedevo e compresi cos’erano la guerra e la morte.

7) Nel 1965 porti a temine la stesura del tuo primo romanzo: “La stanza sul canale”. Lo racconti così: “Una storia d’amore in terra straniera, ma fondamentalmente la vita in fabbrica con i connazionali. Forse è il primo romanzo, certamente tra i pochi scritti non da un sociologo, ma da un operaio, nel mio caso, per caso, sulle condizioni degli emigranti. Provai a mandarlo a una decina di editori con esito negativo.” Credi che questa tua testimonianza, oggi, possa aiutare a comprendere la storia di quegli anni?

La stanza sul canaleIn Italia l’università e l’editoria non fanno una libera ricerca di nuovi autori, si guardano in giro tra gli uomini del palazzo che non sempre hanno talento e qualità. Si trovano in giro molti libri come panini imbottiti. Negli anni ’60 gli editori leggevano i manoscritti e non mandavano agli autori respinti lettere standard. In Italia si sapeva che c’era un’emigrazione di proporzioni bibliche dal sud verso il nord del paese e l’Europa. Cambiavano le direzioni e i porti di approdo, ma la grande emigrazione era già cominciata nell’ottocento verso l’America e L’Australia.
Probabilmente l’emigrazione veniva considerata fisiologica. Del grande esodo dalle campagne e dai paesi del sud è rimasto come testimonianza qualche film e qualche documentario televisivo, ma poca roba, direi quasi niente, di libri vergati in prima persona dagli emigrati. L’emigrazione era considerata un fatto naturale e non colpiva il fondo delle coscienze. Gli editori erano e sono degli imprenditori e pubblicano per guadagnare. Credo che gli intellettuali, i critici, i giornali, non sentissero il problema dell’emigrazione nella sua profondità. Non piaceva né agli intellettuali, né ai politici, né agli imprenditori, che l’Italia si stesse ricostruendo con le rimesse degli emigrati: era il così detto boom economico. Certamente “La stanza sul canale” è uno dei pochi romanzi scritto da un emigrante che lavorava in fabbrica ed è una testimonianza storica vissuta.

8) Cosa sono per te la poesia e la scrittura?

La scrittura e la poesia sono l’asse del carro su cui ruota la mia vita. Il mio modo di essere libero ed essenziale e di non scendere a compromessi. Non rinnego nulla, la mia vita è tutta la mia scrittura.

9) Vorrei portare l’attenzione su di un aspetto che ti contraddistingue e che ha a che fare, se non con la Storia ufficiale, sicuramente con la tua storia personale. Hai avuto un rapporto privilegiato con le figure femminili, protagoniste sia nei libri di poesia in immagini evocative aleatorie e quasi mitiche, che nei libri di narrativa che hai scritto. Parlaci del tuo rapporto con queste presenze femminili.

Le figure femminili più importanti della mia vita sono state: mia nonna materna, Paola, mia madre Elena e una delle donne di servizio che ha vissuto con noi da prima della guerra fino alla morte di mia madre avvenuta nel 1985, si chiamava Carmela. Carmela era una donna semplice e non certo acculturata ma possedeva quella saggezzElvira Des Palmesa paesana e quel temperamento materno di accudimento che furono importanti per la mia crescita. Mia madre era molto distaccata ed era spesso fuori casa, ho passato più tempo con mia nonna e con Carmela che con lei. Quest’ultima mi trattava come fossi suo figlio, anche se aveva già tre figlie sue, si era stabilito un bellissimo rapporto: mi consigliava e mi sollevava quando ero abbattuto con il suo tesoro di detti popolari e con le sue attenzioni. L’altra donna importante della mia vita fu mia nonna paterna, Elvira. Figlia di Enrico Ragusa il più grande entomologo siciliano, stilista e designer di gioielli, donna libera e autonoma, fuori dai canoni dell’epoca (parliamo di fine ‘800 fino a tutta la metà del ‘900). Elvira Ragusa, sorella di Enrico Ragusa Junior, giornalista, drammaturgo, poeta, attore e cabarettista siciliano, fu una figura importante ed emblematica, ispiratrice di un mio romanzo intitolato Elvira Des Palmes, ambientato durante la Belle Époque siciliana.

emili10) Nella Cengia del corvo scrivi ancora: “di casa in casa/sfuggiti/a bombardamenti/e rigattieri/ i ritratti/ degli antenati/ pendono/ dalle pareti/ talvolta/ quando scrivo/ sento un soffio/ curiosare/ alle mie spalle/ mi ricordano/ che il loro sangue/ è ancora vivo/ nel mio”. Che percezione hai del tempo? Com’è il tempo della poesia?

La poesia è il tempo stesso: in cui oggi e domani scorrono senza distinzione. Nell’oggi è presente lo ieri e nel domani il seme di oggi.


grazie a Emilio Paolo Taormina

L’intervista è uscita sul numero 22 di Euterpe rivista di letteratura. Leggi tutto il  numero.

2 pensieri su “Intervista a Emilio Paolo Taormina

  1. Paolo è un grande amico,un uomo di cultura,un uomo..
    Dentro la sua “putia”ci siamo incontrati in tanti a dialogare,cercare Musica,crescere insieme attraverso la condivisione delle nostre passioni..Oggi si raggiunge chiunque attraverso il web e non ci si incontra più. Abbiamo perso il piacere di guardarci negli occhi,abbiamo perso l’opportunità di incontrarci materialmente in punti di ritrovo culturali e umanistici come “La Boutique della Musica “..Peccato!

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    • E’ vero quello che dici Mario, è altrettanto vero che io a 600 km di distanza senza telefono o web non lo avrei raggiunto e non avrei mai avuto la possibilità di parlarci probabilmente. Questo vale per molte altre persone ed è anche vero che qui dove sono praticamente vivo un esilio non voluto. Non credo che servano solo i luoghi serve qualcosa di più… Una grande solitudine è forse il prezzo della modernità. Grazie per la tua testimonianza.

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